di Roberto Gastaldo
Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare
Così solita, e banale, come tante
Che non merita nemmeno due parole su un giornale
(F.Guccini , “Piccola storia ignobile”)
Comune di Salbertrand, frazione Sapè, all’interno del parco naturale del Gran Bosco di Salbertrand. La carrozzabile sterrata che sale dal capoluogo (chiusa al traffico, siamo nel parco) svolta a destra e spiana, lasciando intravedere i resti di un fortino di epoca napoleonica, coperto e nascosto dalla vegetazione. Poco prima della curva sulla destra si stacca una pista più larga, che dietro una sbarra sale ripida ad attraversare dei prati, fino ad una dozzina di anni fa molto battuti dai cercatori di funghi più pigri, quelli che si accontentano dei pinaioli per la frittura, disinteressandosi delle ‘crave’, più pregiate ma abitanti di luoghi più appartati. Fino ad una dozzina di anni fa, già.
Siamo ad inizio 2003, l’alta val di Susa si appresta ad ospitare le gare di sci alpino, bob, slittino e snowboard delle olimpiadi di Torino 2006, ma alcuni prevedibilissimi imprevisti avvenuti durante la realizzazione delle opere iniziano a far storcere il naso a molti residenti, così vengono deliberate delle opere ‘di compensazione’, una delle quali è un monitoraggio della situazione della frana del Cassas, nel comune di Salbertrand, la cui morfologia si ritiene possa essersi modificata a seguito delle alluvioni degli anni precedenti. La regione Piemonte stanzia un milione di euro per “la messa in sicurezza e il potenziamento del sistema di monitoraggio geotecnico della frana del Cassas in Comune di Salbertrand“[1], operazione che verrà realizzata a cura della SITAF, la società che gestisce l’autostrada del Frejus, il cui percorso passa non lontano dalla base della frana. Il sistema di rilevamento sarà costituito da “n° 4 inclinometri e n° 8 piezometri, n° 3 misuratori di portata, n° 2 stazioni topografiche totali, impianto geotecnico di superficie”[2].
La SITAF incarica del lavoro la sua controllata Musinet Engineering, la quale decide di realizzare l’impianto geotecnico di superficie a monte della frana. Ad inizio 2003 però il luogo è raggiungibile solo per sentieri, con una scarpinata non breve dalla frazione Sapè, oppure dalla frazione Seu con un percorso più breve ma decisamente complicato in quanto attraversa la parte alta della frana. Così si sceglie di partire dal Sapè e di scavare una strada lunga un po’ più di due chilometri. La si scava larga, perché devono passare mezzi pesanti, e a tornanti, perché la salita è troppo ripida per affrontarla in modo diretto (ma anche così in alcuni tratti le pendenze risultano notevoli). Ovviamente non la si può realizzare sulla frana, perché non si può fare affidamento su quel tipo di terreno, e allora si passa nel bosco, dove il terreno è più solido, anche se comunque non in piano.
Tra la larghezza della strada e gli scavi necessari per riportare in quasi-piano il suo fondo nei due chilometri di tracciato viene abbattuta una fascia di alberi larga dai 5 ai 10 metri. Inoltre il fatto di dover scavare (in alcuni punti anche più di due metri) per ripianare comporta la necessità di provvedere anche a delle sponde. Costruire centinaia di metri di muraglioni in cemento armato in un parco sembra eccessivo anche ai progettisti della Musinet, e visto che quello che interessa di quest’opera è l’impatto mediatico si pensa ad una soluzione che salvaguardi soprattutto l’aspetto, e se ne trova una apparentemente geniale: non si faranno muri, verranno lasciate scarpate in terra, contenute da reti di corda naturale che tratterranno in posizione il terreno per il tempo necessario all’erba per crescervi sopra, rendendole così stabili. Le reti in corda naturale sono una soluzione elegantissima in teoria, ma nella pratica le loro maglie larghe su queste pendenze non riescono a trattenere la terra, che anche con piogge non eccezionali scorre verso valle; per rimediare sotto di esse vengono posizionate reti di plastica a maglia più fine, queste però non possono biodegradarsi come quelle di corda, restano per sempre a impermeabilizzare il terreno, creando scivoli su cui l’acqua piovana acquista una velocità che finirà per sfogare altrove, in prima istanza proprio sulla nuova strada.
Accade poi che “Durante le fasi di monitoraggio si sono registrate sul versante significative accelerazioni dei fenomeni, sia in termini di spostamenti con il tranciamento dei tubi inclinometrici appena installati, sia in termini di risalita dei livelli di falda”[3]. Difficile dire quanto questi rilevamenti siano collegati ai lavori appena compiuti, ma ormai ci sono, e quindi si deve procedere a realizzare una galleria di drenaggio, quindi altri macchinari e materiali, altri camion (non previsti) che passano sulla pista. Nei punti più ripidi le ruote scavano un solco, che viene poi reso più profondo dall’acqua piovana incanalata dalle scarpate, e da ulteriori passaggi a terreno bagnato; il risultato è che oggi in alcuni punti più che una strada sembra di aver davanti il letto di un ruscello in secca, che però in primavera ed autunno si riempie di acqua e fango che in corrispondenza dei tornanti vanno a riversarsi sui prati e sul bosco circostanti.
Insomma, per monitorare una frana relativamente stabile si finisce per accrescere il rischio di generarne altre a poca distanza, e si ottiene la certezza di devastare una porzione discretamente ampia di un parco, e se è vero che il danno è meno evidente di altri realizzati in zona nello stesso periodo[4] non è detto che sia meno grave, anche perché mentre la pista di bob è stata realizzata in un ambiente già degradato questa carrozzabile va ad intaccare una zona fino ad allora quasi intoccata.
La piccola storia di quest’opera è esemplare di come cause apparentemente condivisibili (ma solo se le si guarda in modo superficiale, senza entrare nei dettagli, fermandosi agli slogan come “mettiamo in sicurezza il territorio” e senza chiedersi cosa si preveda di fare per metterlo in sicurezza) possano essere usate per far passare opere dagli effetti devastanti, il cui unico scopo, come per le famigerate Grandi Opere, è la distribuzione di denaro pubblico ad aziende private. Purtroppo sulla montagna il trucco della riduzione a slogan funziona più facilmente, favorita dalla distanza che rende di più difficile applicazione l’unico anticorpo possibile: la conoscenza nel dettaglio dei fatti. Inoltre anche l’ampiezza degli spazi può portare a sottovalutare la portata del danno: guardando il fianco della montagna dal versante opposto la pista si distingue solo a tratti, ma il danno non è purtroppo solo estetico, è presente anche dove non appare. Trovandosi anche ad operare su una parte di montagna completamente disabitata, ed in un periodo in cui in alta val di Susa venivano aperti cantieri a diecine, i proponenti di quest’opera hanno avuto gioco facile a procedere senza incontrare alcuna opposizione, la speranza è che diffondendo questa ed altre storie simili chi si trovi di fronte a tentativi analoghi possa riconoscerli per tempo, e preparare loro un’accoglienza diversa.
NOTE:
Redazione_am
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Faccio un piccolo aggiornamento, ieri sono passato di nuovo sulla strada oggetto di questo post, e ho potuto verificare che il danno continua ad avanzare, come si vede da questa foto
https://drive.google.com/file/d/0B5nAZYSw_xJISVQ5b1o4TzFBcHc/view
le reti di pastica cedono e la terra frana anche da sotto le radici degli alberi, ancora un paio di stagioni di pioggie questi cadranno liberando praterie allo scorrere dell’acqua piovana e alle frane. Chiamale se vuoi compensazioni