1. Alba, 19 luglio 1964
Il dolore ai polpacci si fece meno intenso mano a mano che la salita s’addolciva e il bosco lasciava spazio ai prati dell’alpeggio. Scaramouche spalancò la bocca in un respiro profondo ma non riuscì a terminare d’inspirare che sentì i polmoni imbeversi d’umido, come fossero due spugne. Tutt’intorno a lui, il bosco traspirava umidità, mentre nebbie cariche d’humus si levavano mano a mano che l’alba avanzava, facendo capolino tra le vette.
«Come ci sono finito qui?» si domandò Scaramouche tossendo.
Ne approfittò per arrestare il passo, in tempo per accorgersi che la canottiera di lana era impregnata di sudore, circostanza che non faceva altro che aggiungere fastidio a fastidio visto che l’aria di quella mattina era ben più che pungente. Il crepitio di un ramo spezzato lo risvegliò dai suoi pensieri oziosi, d’istinto portò la mano al fianco dove, appesa alla cintura, pendeva la calibro nove. La stessa Beretta che poche ore prima lo aveva tradito inceppandosi proprio quando il suo obiettivo era stato finalmente a tiro. In quel momento, mentre mirava, gli erano passati davanti agli occhi quegli ultimi anni di vita, quelli che lo avevano investito come una valanga. Come una slavina quando travolge un abete solitario che si erge sulla sua strada; squassandolo ben prima di abbracciarne il cadavere con la sua stretta candida e gelida.
Non seppe mai cosa andò storto in quell’istante. Premette il grilletto, non accadde nulla. Premette ancora. Nulla. Clic. Nulla. Clic, clic clic, clicliclcliclclic. Nulla di fatto. Lesse allora, negli occhi del suo nemico, atterriti fino a quell’istante, sollievo. Lesse la possibilità di una fuga, l’ennesima, l’ultima decisiva fuga per portare a termine il suo piano. Provò lo stesso a impedirla, gli si lanciò contro, alla disperata, ma fu sopraffatto, stordito, abbandonato sul ciglio della strada. Costretto, ancora una volta, a rimettersi in piedi, a riordinare le idee, a ricominciare la posta da zero. Solo che questa volta sapeva bene dove la sua nemesi si stava dirigendo e perché; questo gli dava un vantaggio, seppur minimo, ma sempre un vantaggio, una speranza, un barlume di lucidità a cui aggrapparsi per riemergere dalle nebbie dello stordimento, rimettersi in piedi e ricominciare a correre. Poteva farcela, doveva farcela.
E così l’inseguimento era continuato e lo aveva portato lì, su quell’alpeggio, all’alba.
Proseguì per un altro paio di chilometri, mentre il sole, inesorabile, investiva la valle coi suoi raggi. Il sentiero riprese a salire inerpicandosi lungo un muro erboso, ripido e solcato da un torrente che scorreva veloce tra l’erba verdissima. Scalato il muro la vista del nevaio s’aprì davanti ai suoi occhi, un catino di sassi, ghiaie e ghiaccio perenne abbracciato da due cime che da millenni franavano lente riempiendo la valle. “Giogo delle frane” pareva lo chiamassero gli abitanti del posto, o almeno così aveva letto su una placca di legno posta lungo il sentiero, dove qualcuno aveva scritto il toponimo tedesco con la vernice nera, proprio sotto al nome italiano.
«Uno scenario olimpico» sentenziò, anche se non c’era nessuno a sentirlo. Quella considerazione estemporanea non lo sorprese, il suo nemico aveva un gusto perversamente estetico e quella scenografia era degna della sua fama. Gli tornarono in mente, per un istante, le letture amate durante l’adolescenza: Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes, le cascate di Reichenbach, la sfida finale col Dottor Moriarty. «Camminiamo sui confini del mito» mormorò tra le labbra e subito cancellò quel pensiero dalla testa, «fanculo al mito, io ne voglio uscire sano».
In ogni caso come si chiamasse o apparisse il posto era l’ultima delle sue preoccupazioni, perché li suo avversario lo precedeva. Anzi per un momento gli parve pure di scorgerlo, qualche centinaio di metri sopra di lui, tra le rocce, un punto scuro, ombra tra le ombre, che saliva verso la cima di destra, pronto a portare a termine il suo disegno. Ancora una volta accelerò il passo, e gli parve impossibile. Quante volte aveva accelerato il passo in quegl’anni? Quante volte s’era rimesso in cammino con più lena, più costanza, più rabbia di prima? Non avrebbe saputo dirlo, sapeva soltanto che in un modo o nell’altro quella sarebbe stata l’ultima volta.
«Fanculo al mito, io ne voglio uscire sano».
2. Notte, 12 giugno 1961
Il rumore dei colpi finì per insinuarglisi nella testa, sovrapponendosi al battito incessante dell’alcool, nonostante avesse cercato di contrastarlo con ogni mezzo. Aprì gli occhi mano a mano che il richiamo dell’appuntato si fece più chiaro e il battito delle sue nocche sulle assi della porta più insistente. Riconobbe, alzandosi dal letto, una sfumatura d’apprensione nella voce del sottoposto che lo spinse a muoversi più in fretta, nonostante il corpo facesse di tutto per metterglisi di traverso. Riuscì a sedersi sul letto. «Sono sveglio» biascicò a mezza bocca per far smettere quella gragnuola di colpi. «Moroccolo che cazzo, finirai per buttare giù la porta» disse senza troppa convinzione. Allungò la mano per cercare l’interruttore della luce, lo trovò e lo spinse. Ma la luce non si accese. In quell’istante capì che, forse, la foga dell’appuntato Moroccolo e la lampadina che non si accendeva potessero essere collegate. Fu proprio allora che tutto accelerò; inevitabilmente.
Quindici minuti dopo era seduto sul sedile posteriore dell’auto di servizio, alla testa di una colonna di mezzi che sciamava, senza farsi annunciare, fuori dalla caserma Guella. La valle dell’Adige era immersa in un buio denso e silenzioso, ovattato come un bosco durante una nevicata. Il primo scoppio aveva scosso Bolzano all’una di notte. Nelle due ore successive un numero di ordigni compreso tra 46 e 350 aveva colpito chirurgicamente la rete elettrica dell’intera provincia, ma questa non era collassata del tutto. Tuttavia nessuno, in quell’autocolonna di Carabinieri che attraversava le strade dell’Alto Adige, lo aveva ancora saputo. Per tutti loro, quella notte alle porte dell’estate era fatta di null’altro all’infuori del buio, il buio e le luci minacciose dei fuochi del Sacro Cuore sulle montagne circostanti, presagio di un’antica e dimenticata rivolta di cui nessuno di loro, probabilmente, aveva mai sentito parlare.
Uscirono dalla città all’altezza di Castel Roncolo e presero a salire lungo i tornanti della statale della Val Sarentino. Una strozzatura di rocce acuminate e costoni che sembrava sempre sul punto di franar loro addosso, o almeno così gli parve. Tesi com’erano, spiati dai fuochi che continuavano ad ardere sulle montagne, erano pronti a reagire a ogni possibile minaccia che, in quella notte, poteva aver qualsiasi sembianza.
Alle porte del paese di Sarentino l’autocolonna svoltò sulla sinistra, imboccando una stradina laterale sterrata che, dopo aver attraversato il torrente Talvera, s’infilava nel bosco di abeti e larici. Frenarono i mezzi in uno spiazzo distante poche centinaia di metri, all’interno della macchia di conifere. Quando il plotone mise piede a terra si aprì come si aprono le dita di una mano prima di afferrare un moscone stordito dal freddo. Avanzarono in formazione tra gli alberi fino a raggiungerne il limitare, dove la macchia si spalancava su un prato che accennava appena a salire verso la montagna. Al centro del prato, circondato da uno steccato fradicio patocco, sorgeva un maso. Un esile filo di fumo s’allungava dal camino verso il cielo notturno e pesto, segno che nel maso c’era, o c’era stato di recente, qualcuno.
Avrebbe scommesso che quell’uscita, pericolosa e stupida ai suoi occhi, si sarebbe rivelata un buco nell’acqua. Aveva anche provato a protestare, quando il Generale Furas, durante il briefing breve e nervoso seguito al suo brusco risveglio, gli aveva ordinato di effettuare quella retata. «Lei non si preoccupi, maresciallo» gli aveva detto con una nota spocchiosa nella voce «troverete quei terroristi. E mostrerete a quei baccani che se si divertono a suonare la grancassa noi non saremo da meno a tenere il loro ritmo».
I suoi uomini circondarono il maso. Brandivano i manganelli, tosti metronomi del loro affannato e nervoso respiro, scuotendoli leggermente. Per un attimo soltanto tutto intorno a lui si fece rarefatto. Il tempo, lo spazio, il suo stesso pensiero si contrassero, concentrati e amari come una goccia di sciroppo sulla lingua di un ragazzino. E come un ragazzino sputò fuori quel grumo di tensione in un grido roco e gracchiante. «Dentro!» gridò. «Muoversi! Muoversi! Muoversì!» incalzò, gettandosi dentro la porta appena sfondata da un calcio ben assestato. Davanti a lui una massa bovina di vuoti sguardi d’uomini, vuoti come quelli di dementi risvegliatisi per un istante dallo sprofondo dei loro incubi, consci di dovervi ricadere nel volgere di un istante.
Gli uomini del suo plotone si riversarono nella sala con la foga d’una piena, i manganelli agitati sopra le teste come nere creste d’onda calavano per poi risalire, ritmando il sordo rumore del legno brandito contro la carne e le ossa. I tonfi gli riempirono per un attimo le orecchie, quasi ipnotizzandolo. Perché non reagiscono? Si sorprese a pensare proprio quando scorse, con la coda dell’occhio, di là dal vetro della finestra, un’ombra che fuggiva verso il bosco. Corse fuori dalla porta mentre all’interno la tonnara non accennava a terminare. Lanciò l’alt, ma l’ombra continuava a correre verso il bosco. Estrasse l’arma d’ordinanza, mirò, prese il respiro, contò: uno, due, tre. Il colpo ruppe il frastuono ovattato che proveniva dalla casa. L’uomo prillò su se stesso, e cadde.
3. Mattino, 9 gennaio 1963
Da mesi, ormai, era morto. Simulacro di vita, esoscheletro svuotato di ogni ragion d’essere. Sua unica compagna, la bottiglia. L’amaro, rancido nettare che riempiva le sue viscere nelle notti in compagnia dei pensieri, reietti come il popolo umiliato che riempiva le strade, invisibile agli occhi della gente perbene. Lui, che fino a qualche mese prima sarebbe stato considerato un buon partito, oggi se ne stava accasciato sullo schienale freddo di una panchina di marmo, a lasciarsi scivolare la Vernaccia nello stomaco. In testa le parole sprezzanti dell’uomo che gli aveva rovinato la vita.
«L’ostinazione con cui insegue i suoi fantasmi le ha offuscato il raziocinio» aveva sentenziato il Generale dell’Arma Gavino Furas. «Compito di ogni fedele servitore dell’Arma è perseguire i terroristi che mettono a repentaglio la vita dei compatrioti, non lasciarsi trasportare da fantasie di tradimento, di complotto. Specie se queste portano a fantasiose accuse all’Arma stessa: qui non ci sono talpe e tantomeno traditori. Se questo non le è chiaro, è chiaro a me che la sua presenza non solo non è gradita, ma è dannosa, perniciosa per l’immagine e il ruolo che i Carabinieri hanno il dovere di svolgere in questi perigliosi frangenti».
Congedato con disonore, abbandonato per aver fatto il proprio dovere. Qualcosa che non poteva sopportare. Soffiato da questi pensieri come una foglia nel vento, s’era sospinto lungo il bordo della ferrovia e qui contemplava i binari, annebbiato dall’alcool e dall’amarezza che si mischiavano in un’unica, dolorosa pulsazione nelle tempie.
Scrivere la parola fine a quella che era solo la copia carbone della vita d’un tempo. Farla finita in quell’istante. Tirare una riga. Metterci il punto. Fu mentre cercava il coraggio per dar seguito ai suoi pensieri suicidi che lo udì. Udì un suono, flebile, come il guaito d’un cane bastonato, più bastonato di quanto non si sentisse lui. Un tristissimo lamento che parlava, quello realmente, di morte. Si scosse e ne seguì la traiettoria. Attraversò la massicciata e scese lungo la scarpata della ferrovia verso un mucchio d’assi di legno fradice d’umido, inchiodate a formare un rifugio che solo con grande sforzo si sarebbe potuto chiamare baracca. Entrò da quella che doveva essere la soglia e lo vide: un uomo, né giovane né anziano, steso a terra, immobile. Gli si fece accanto, gli prese il polso, ma di battito non c’era traccia. Morto, forse esalando quel lugubre richiamo come ultimo respiro. Si guardò intorno, una valigia di cartone chiusa con lo spago giaceva sul pavimento del tugurio. L’aprì e la prima cosa che vide fu una maschera, che non riconobbe. Lo colpì il naso lungo, nodoso e grottesco, della maschera. Frugò ancora e ne trasse un quaderno, forse un diario. Lo sfogliò e lesse le prime pagine. La notte non sopravvisse alla lettura, ed era già mattino inoltrato quando chiuse il quaderno. Il racconto della vita di quell’uomo, cadavere freddo accanto a lui, gli illuminò il volto di una nuova speranza. Anche se non aveva più nulla, proprio perché non aveva più nulla, poteva combattere ancora, e con più lena. La sua battaglia non finiva nelle carte di un Generale dei Carabinieri. La sua battaglia iniziava in quell’istante, con un nuovo volto e un nuovo nome. Scaramouche, come il sole in una vallata alpina, sorgeva ancora una volta; inesorabile.
4. Tramonto, 5 dicembre 1963
La pira al centro della piazza del paese proietta ombre mostruose sulle pareti delle case circostanti. Intorno al fuoco le creature danzano la loro ridda animalesca. I campanacci legati ai fianchi mandano un suono grottesco. Ferine, le maschere guardano a destra e a sinistra, gli occhi dipinti di rosso trafiggono gli sguardi atterriti dei bambini, piangenti, tra le braccia dei genitori. Pelli e peli, corna e barbe, armate di verghe bagnate nelle fontane della piazza, inseguono i malcapitati spettatori. Mani macchiate di nerofumo cercano visi da accarezzare. Non è la prima volta che l’uomo intabarrato, che sosta adesso all’angolo della piazza, vede i Krampus invadere il paese. Ma quella volta lo spettacolo gli mette addosso un senso di minaccia che fatica a spiegarsi anche con la discreta quantità di vin brulé che ha ingerito fino a quel momento. Ora la danza dei Krampus si fa meno veemente e la mandria comincia ad allontanarsi alla spicciolata. Per i figuranti la festa continua, per lui è tempo di rientrare.
Imbocca il vicolo, i ciottoli sotto le scarpe sono freddi e bagnati dalla prima neve. All’improvviso l’uomo ha un sussulto, il rumore d’un campanaccio lo scuote dal suo torpore alcolico. Si volta di scatto. Nessuno alle sue spalle. Nessuno di fronte a lui. «Bisogna tenere gli occhi ha aperti» ha ripetuto più volte il capo all’ultima riunione «l’organizzazione non può permettersi altri passi falsi». L’uomo intabarrato affretta il passo, la casa sicura è vicina, proprio dietro l’angolo, dove la strada principia a salire lungo la collina, incastonata tra due muretti di pietra. Ormai manca pochissimo, pochi passi ancora e tra lui e quella notte ci sarà un portone di legno massiccio. Pensa a questo, l’uomo, nel suo tabarro, quand’eccolo, ancora una volta, il campanaccio dietro di lui. Scatta, quasi fa per estrarre la pistola da sotto la giacca, ma alle sue spalle, e davanti a lui, non c’è nessuno. Gli ultimi metri li percorre affannato, estrae la pesante chiave d’ottone dalla tasca, la serratura scatta, fin qui tutto bene, pensa. Scivola per metà dentro il portone, fa per richiuderselo alle spalle quando, per sicurezza, dà un ultimo sguardo alla strada. Solo allora la vede, la scritta. Campeggia sul muro, proprio di fronte al portone, proprio di fronte ai suoi occhi.
SCARAMOUCHE LEBT
Non fa in tempo a realizzare cosa sta succedendo che la maschera gli è addosso, lo spinge con violenza dentro l’androne del palazzo. Cade. La maschera adesso gli è sopra. Lo colpisce, una, due, tre volte. Tutto si fa buio. Riapre gli occhi poco dopo, legato alla sedia mani e piedi. Accanto al suo scrittorio, scassinato, c’è un Krampus, ma è diverso dagli altri. Niente barba, niente corna, niente mento prominente, solo un lungo, spaventoso naso. Per terra, spezzato, giace il sigillo del Bas. Quella carte, riservate e confidenziali, ora sono nelle mani di quella bestia che ormai da mesi dà loro la caccia. Scaramouche annuisce soddisfatto, finalmente ha trovato ciò che cercava e la sua caccia si avvia all’ultima battuta. Prima di andarsene dà un ultimo sguardo all’uomo legato alla sedia. «Aufwidersehen, Luis» dice mentre esce dalla stanza.
5. Pomeriggio, 19 luglio 1964
Le nuvole s’erano addensate rapidamente intorno alla vetta, nascondendo i crepacci che s’aprivano ai lati di quella lingua di brune pietre taglienti. Il vento, di folata in folata, rinforzava la sua spinta e di lì a poco sarebbe stato difficile mantenersi in equilibrio. Nell’aria fluiva una tensione che avresti detto elettrica, un fluido tangibile che ti dava l’impressione di poterlo dirigere con le tue stesse mani, tanto pareva denso.
Di fronte a lui, di schiena, stava l’uomo a cui aveva dato la caccia negli ultimi quattro anni. A vederli da fuori avresti detto che erano due viandanti, viandanti persi in un mare di nebbia. L’uomo si voltò, terminando il suo discorso: «Tu e io, Scaramouche, camminiamo ai confini del mito».
«Quattro anni che ti do la caccia» pensò Scaramouche, sentendo montare la rabbia. «E ancora non hai capito chi sono. Mi hai messo al tappeto, hai preso ciò che era il mio passato, mi hai spinto sull’orlo del mio destino. E ancora non hai capito chi sono». Sputò per terra con disprezzo mentre i muscoli del collo presero a tirare con forza. «Tu e io siamo identici, Scaramouche» aveva ripreso quello «tu e io cerchiamo di annullare noi stessi nello sforzo di incidere la nostra orma nella Storia. La differenza sta però nel fatto che tu, amico mio, vuoi conservare questa Storia fatta di passioni tristi e uomini deboli e inetti. Sei un conservatore, mentre io, al contrario, perseguo il cambiamento, desidero dar vita a un nuovo corso. Afferrare la Storia per la coda e dominarla, come il cavaliere domina il cavallo tirandone le redini».
Prese fiato, e indicò con gesto tronfio il mare di nebbia circostante, sotto cui s’apriva la vallata: «Oggi, dopo averti sconfitto, lancerò il segnale ai miei sonnambuli. Quegli ingenui contadini e studenti e intellettuali che fanno capo al Bas risponderanno all’ordine e insorgeranno. Insorgeranno solo per poter essere annientati. Come pensi che reagiranno allora i nostri vicini, gli austriaci, quando vedranno massacrati quelli che un tempo erano loro fratelli? Sarà la guerra, Scaramouche, sola igiene del mondo, come diceva il poeta. E dal ferro e dal fuoco della guerra sorgerà un nuovo ordine, il mio».
«Tu e io non siamo uguali» digrignò tra i denti Scaramouche, caricando l’uomo a testa bassa. Roteò il bastone sopra la testa e provò a menargli un fendente dall’alto verso il basso, mirando lo stinco. Il suo avversario parò il colpo, deviando il bastone con un calcio. Muovendosi quasi a saltelli sulle rocce, quello gli si fece sotto portandogli una serie di pugni in rapida successione. Come facesse a muoversi così agilmente era un mistero, lui a malapena riusciva a evitare qualcuno dei colpi che piovevano da ogni parte, indietreggiando goffamente per paura di finire di sotto. Assestarsi gli costò un violento cazzotto sul collo, proprio dove la maschera lasciava la pelle scoperta. Accusò il colpo rinculando all’indietro, ma prima che il suo avversario ne potesse approfittare mulinò nuovamente il bastone, ruppe la guardia e fu il suo turno. Si fronteggiarono veementemente per diversi minuti, lividi si gonfiavano su entrambi i corpi e piccoli rivoli di sangue solcavano la faccia di uno e uscivano da sotto la maschera dell’altro. Sembrava che nulla potesse mettere fine allo scontro, quando, a un tratto, il suo avversario vacillò. La roccia su cui aveva poggiato il piede smottò, infida. Ondeggiò come un abete quando il versante della montagna frana a valle. Scaramouche colse l’attimo. Caricò ancora, con le ultime forze che sentiva in corpo. Caricò e colpì. Il corpo del nemico fu inghiottito dalla nebbia e il tonfo giunse alle sue orecchie, attutito. Si voltò, distrutto, e zoppicando si avviò a valle.
Qualche giorno dopo, il 23 luglio del 1964, su tutti i giornali campeggiava la notizia della condanna. Luis Amplatz, Georg Klotz e Sepp Kerschbaumer, i leader del Bas – Bfreiungauschuss Südtirol, furono condannati dalla Corte d’Assise di Milano a 26, 18 e 15 anni di reclusione. E con loro altri 91. In pochi notarono il trafiletto: «Morto, in montagna, il Generale dei Carabinieri Gavino Furas».