I setacci hanno lavorato, proprio come avevamo scritto rendendo noto che domenica 17 maggio si era svolta una doppia salita – via ferrata e lungo il sentiero – al Monte Pirchiriano, sulla cui sommità giganteggia la Sacra di San Michele. Questo che segue è il récit collettivo dell’ascesa, in cui alla narrazione del percorso sono intessuti riflessioni e pensieri sparsi.
Prima di lasciarvi alla lettura i nomi dei partecipanti: Corrado, Diserzione, Marcobabouche, Luigi, Robgast69. Le fotografie sono state scattate da Diserzione.
ANONIMO PEDEMONTANO: Sono i primi anni ’70, un sabato di inizio autunno. Una donna sale lentamente la scalinata in pietra che porta alla chiesa della Sacra di San Michele. Il marito la invita a fermarsi, a riposarsi e quindi a ridiscendere verso la stradina sottostante. Lei gli sorride, si ferma per qualche istante a recuperare il fiato. “Sto bene, faccio ancora un pezzo, piano piano”, e riprende a salire. È incinta, di sette mesi e mezzo. Arriverà fino in cima, felice di aver salito tutti gli impervi gradini che portano al santuario: sarà certamente di buon auspicio per il nascituro. Intorno alle cinque del mattino della domenica tutto accelera. Il bimbo sembra aver deciso che è giunta l’ora di uscire a vedere com’è fatto il mondo. Non c’è tempo di correre in ospedale, il parto avverrà in casa.
Ogni volta avvicinarmi alla mole di pietra della Sacra è un ritorno. All’origine.
ROBGAST69: Per me tutto inizia una sera di gennaio, alla presentazione di Diario di zona il Vecio mi dice “A fine marzo o inizio aprile io e Diserzione andiamo a fare la ferrata della Sacra, tu ci vieni?” Io faccio rapidamente il punto: sono sovraccarico di impegni, decisamente fuori forma e in più patisco di vertigini, con queste premesse gli do l’unica risposta possibile, un “Mi piacerebbe” che tanto a lui quanto a me suona come un sì. Un istante dopo ho uno sprazzo di lucidità e aggiungo “ma devo pensarci un attimo”, ma ormai il meccanismo si è avviato. Nelle settimane successive per sciogliere la riserva cerco descrizioni del percorso e non ne trovo di soddisfacenti, sono tutte molto generiche, nessuna che parli di gradi di difficoltà, tranne la scheda di un opuscolo cartaceo “arrampicare in val di Susa”, che però descrive la salita prima che venisse tracciata la ferrata. Allora passo ai video, va un po’ meglio ma non si capisce mai se le parti che si vedono sono le più facili o le più difficili, e quindi torno dal Vecio con delle domande. Alla fine decido che ci posso provare, sperando che venga scelta una data in cui potrò esserci.
LUIGI: Visto che si tratta di riflessioni sparse, il cui unico filo conduttore è l’uscita alla Sacra, per questa volta ho evitato un racconto in ordine cronologico e, approfittando delle capacità di montaggio del gruppo redazionale (di cui per inciso faccio parte anche io, con un contributo pari a zero), ho preparato una sorta di resoconto pilotato dalle lettere dell’alfabeto, estremamente snodabile. Non tutte le lettere sono rappresentate, in effetti non voleva essere una scelta competitiva; a mio modo di vedere, la competizione è in aperta contraddizione con lo spirito molotov di qualsiasi cosa. L’intenzione è solo di proporre un punto di vista differente.
ROBGAST69: Passano mesi, e come la maggior parte delle scadenze anche questa slitta, arriviamo ai primi di maggio e Diserzione mi scrive “Il Vecio dice che fino a luglio non riesce a liberarsi, ma allora sarà troppo caldo. Andiamo domenica?” Quella domenica no, ma per quella dopo si organizza. Qualcun altro del gruppo prende in considerazione di salire con noi ma poi rinuncia, altri ancora si danno presenti per raggiungere la stessa meta passando dalla mulattiera. “Ci sono”, “non ci sono”, alla fine ci troviamo in cinque, due per la ferrata e tre per la mulattiera, ritrovo praticamente sotto casa mia, domenica mattina alle 8, che la ferrata è lunga.
LUIGI: A come Afa. A quanto pare, non c’è modo di partecipare a un’escursione [di alpinismo] molotov in condizioni climatiche che non siano estreme. Alla manifestazione No Tav abbiamo rischiato l’assideramento, oggi la temperatura ricorda molto da vicino l’ascesa al Musinè del 21 settembre dell’anno scorso, ovvero, a camminare in salita sotto il sole, sia pure con una pendenza ridicola, si schiatta. Se non altro, almeno questa volta non sono stato immortalato in pose strazianti.
ROBGAST69: Arrivo che ci sono già Corrado e Luigi, Diserzione e Marcobabouche arrivano nel giro di poco e subito si parte, una mezz’ora d’auto e siamo a Sant’Ambrogio. Lasciamo la macchina al posteggio della stazione, che è il più comodo dalla mulattiera, calziamo gli scarponi, riempiamo le borracce, e ci mettiamo in marcia, ma dopo pochi metri ci fermiamo, ancora un caffè e una brioche prima di partire davvero.
LUIGI: G come Gente. Quando vestivo ancora soltanto i panni del lettore, in uno dei racconti collettivi che hanno preceduto la nascita del blog Alpinismo Molotov, mi era rimasto impresso un commento a latere: “difficile trovare tanta bella gente tutta insieme”. Ora sono nelle condizioni di poterlo sottoscrivere. Curiosa la massiccia partecipazione di informatici, più o meno pentiti. Conosco più informatici pentiti che informatici!
ROBGAST69: Sant’Ambrogio è in piena zona No Tav, è stato uno dei primi comuni ad eleggere un sindaco di una lista No Tav, un suo consigliere comunale aveva avuto una certa notorietà per un video durante le proteste successive alla caduta di Luca Abbà dal traliccio in val Clarea, eppure rispetto ad altri comuni della zona sono poche le bandiere esposte. Forse il segno più evidente dell’opposizione è l’ape che campeggia nell’insegna all’angolo dell’incrocio che stiamo attraversando, quella della sede di Etinomia, associazione di imprenditori nata per smentire la vulgata secondo cui chi produce sarebbe a favore dell’opera. Curiosa coincidenza che abbia lo stesso simbolo dei nostri gemellati milanesi.
LUIGI: M come Musiné. Posta proprio di fronte al Pirchiriano, l’altra sentinella all’imbocco della valle un po’ più alta e un po’ più lunga da salire, oggetto di un récit precedente (qui e qui). Non è casuale che, su quattro narrazioni collettive, tre si svolgano in Val di Susa. Un po’ perché parecchi alpinisti molotov abitano nei dintorni, molto perché rappresenta una centralità di tema che non è neppure il caso di sottolineare, ultimo in ordine di tempo il murales di Blu. In attesa dei borradores meneghini.
LUIGI: C come cordate. Siamo cinque. Diserzione e Robgast69 si cimentano con la ferrata, mentre io, Marcobabouche e Corrado optiamo per la mulattiera. Dati i tempi differenti previsti per le ascese (4 ore contro 1 e mezza), in partenza accompagniamo gli arrampicatori all’attacco della ferrata, da cui è possibile vedere la prima parte, già discretamente affollata (sono le 9 e un quarto). Appuntamento alla locanda in vetta, dove noi belli riposati verremo raggiunti mentre siamo in procinto di ordinare i panini.
ROBGAST69: Stavolta ci muoviamo davvero, attraversiamo il paese ancora quasi deserto in direzione dell’attacco della ferrata, i tre che faranno la mulattiera hanno deciso di accompagnarci fin lì, che tanto a salire ci metteranno sicuramente meno di noi. Questa ascensione ho avuto voglia di farla da quando me l’hanno proposta (sicuramente una decina di anni di pendolarismo, passando davanti alla parete ogni mattina ed ogni sera col treno hanno lasciato un terreno ben preparato per quel seme), però sulle ferrate ho delle riserve: sono montagna o luna park? I quasi onnipresenti ponti tibetani (anche qui ce n’è uno) farebbero pensare più al luna park, e anche la coda che troviamo alla partenza non promette bene, ma mi impongo di non considerarla significativa. Mi faccio spiegare da Diserzione, che avendo già fatto una ferrata una volta è il più esperto del gruppo, come si aggancia il kit all’imbrago, poi io e lui ci prepariamo, salutiamo gli altri tre e iniziamo la salita.
LUIGI: F come ferrata. Comincio dalla fine. Ho chiesto “Com’era?” Risposta “Verticale!”. Ho assistito con interesse e ammirazione ai preparativi dei compagni che si sarebbero cimentati, mentre indossavano imbrago, moschettoni e quant’altro necessario, mi sono anche fatto un’idea di come funziona l’approccio a una ferrata, che ignoravo totalmente. Io, causa vertigini, non sarei riuscito ad arrivare nemmeno al cancelletto da dove era fissato il primo fermo. Ho la ferrea determinazione a evitare, ora e sempre, qualunque percorso che richieda l’uso delle braccia come supporto alla progressione (come da dicitura ufficiale che delimita il campo di azione della figura dell’accompagnatore escursionistico). E anche come supporto al sostegno ho le mie perplessità, salvo casi di emergenza.
ROBGAST69: Un primo tratto di arrampicata molto facile, poi uno da camminare e basta, poi si arrampica di nuovo. Nell’idea che mi sono fatto le parti da camminare, quelle in cui non c`è bisogno di usare le mani, dovrebbero essere parecchie, specialmente nella prima parte. Nelle prossime due ore scoprirò che è un’idea del tutto sballata.
LUIGI: B come bastoncini. Sono l’unico membro della spedizione attrezzato con i bastoncini, un attrezzo inservibile per la ferrata e inviso agli escursionisti che praticano da più di un decennio. Ma l’ultimo fisiatra che ho consultato me li ha praticamente imposti con la violenza, e le mie articolazioni lo ringraziano a ogni passo.
ROBGAST69: Saliamo lungo quella che un tempo doveva essere una dorsale e adesso è una cresta che strapiomba su una cava in disuso, ma in poco tempo arriviamo più in alto di quanto siano arrivati i macchinari mangiaroccia, e così torniamo ad avere pietra su entrambi i lati. Per il momento le mie vertigini non si sono fatte sentire, quindi è probabile che continueranno a tacere. Non so come funzioni per altri, per me le vertigini sono una cosa molto variabile da giornata a giornata, ma che difficilmente cambia con il passar delle ore, quindi se sono riuscito a superare i primi passaggi esposti dovrei farcela fino in cima.
LUIGI: V come viandanze. Dal 29 aprile, prelevato direttamente dallo scatolone di Feltrinelli, La Via del Sentiero accompagna le mie escursioni, così come faceva con il protagonista de Il Sentiero degli Dei. Viandanze, di Stevenson, puntiglioso e severo come scrive Luca Gianotti nella sua piedigrafia, è il titolo del pezzo che preferisco. Non è molotov (“per godersela appieno, una viandanza va intrapresa da soli”), ma coglie e trasmette le sfumature di molte delle sensazioni e pensieri che mi accompagnano in cammino. Scritti meglio di come potrei mai pensare di fare io.
ROBGAST69: Saliamo ancora un tratto poi, a metà di un traverso, Diserzione mi avvisa che abbiamo un po’ di gente dietro e che stiamo facendo tappo, allora mi fermo in un punto più largo e lascio passare. Non li conto ma sono sicuramente più di dieci persone, e direi di almeno quattro gruppi diversi: non credevo di andar su così lento. Quando sono passati tutti riparto, ma fatti pochi metri vengo superato da un’altra coppia. Siamo in un tratto facile e non molto esposto, ma che comunque a me richiede qualche appoggio delle mani, e loro viaggiano slegati, lui è anche scalzo. Faccio una battuta sulla mia lentezza, lui risponde senza traccia di spocchia, però comunque in quel salire slegati e scalzi qualcosa mi suona sbagliato. Salire così è una ricerca di maggior naturalità, o solo un voler (o volersi) stupire a tutti i costi?
Appena dopo questo sorpasso iniziano le placche verticali, con un paio di passaggi leggermente strapiombanti, facilitati da scalini in ferro. Su tutta questa ferrata di scalini ne troveremo fortunatamente pochi, mai più di 5 o 6 di fila, quasi sempre solo un paio alla volta. Mi piace questa impostazione minimale, finché si tratta di semplificare pochi passaggi durissimi in una via di media difficoltà lo trovo ragionevole, “spianare” la maggior parte del percorso per poter allargare la platea invece lo troverei assurdo. Da luna park, mentre qui mi sento ancora in montagna.
LUIGI: P come passo. Mentre io arranco con i miei bastoncini, davanti Marcobabouche e Corrado passeggiano come se fossero pellegrini in via Garibaldi intenti a guardare i gazebo bianchi dei mercanti del tempio, fermandosi spesso caritatevolmente ad aspettarmi. Dall’articolo 1 del Manifesto AM: “… si parte e si torna insieme, regolando il passo al ritmo del più lento”. Cioè sul mio, mi pare di poter semplificare dopo questa esperienza, a meno che qualche compagno non porti in una prossima uscita un erede, di età inferiore ai 5 anni. L’alternativa è dare vita a una scissione e fondare l’escursionismo molotov.
ROBGAST69: Supero la scalinata più lunga, in un canalino riparato, poi la ferrata gira e mi porta sulla parte più esposta, a metà di una placca completamente verticale. Faccio i quattro o cinque passi del traverso con un poco di affanno ( un po’ più di “un poco” ad essere sinceri), ma nessun mal di testa e nessuna perdita di equilibrio, oggi niente vertigini. Il che non vuol dire nessun disagio, sono pur sempre appeso sopra ad un bel salto, con la roccia che fa leggermente pancia e le prese che sono piuttosto distanti tra loro; io vorrei salire “pulito”, usando solo gli appigli della parete, ma per me sono passaggi già impegnativi e l’idea di restare appeso qui non mi attira proprio. Sto cercando una presa buona per la mano sinistra per superare un punto in cui la roccia fa pancia e non riesco a trovarla, sono fermo da troppo tempo e con troppo vuoto sotto ai piedi e questo mi mette agitazione, per dirla più chiaramente me la sto facendo sotto. Mentre sono bloccato lì Diserzione mi chiede come mi chiamo su twitter lasciandomi di sale. Sarà la fatica anche per lui? Ci seguiamo da anni, lo sa come mi chiamo, ma poi gli sembra il momento? È vero che lui è fermo su un terrazzino che aspetta che io gli liberi il passaggio, e visto che l’attesa si fa lunga guarda il telefonino, ma in quel momento non mi riesce di tener conto del fatto che ha un diverso punto di vista, gli rispondo in modo non proprio educato e torno a cercare la presa, ma dopo poco mi arrendo e inizio ad usare la ferrata non solo come sicura ma anche come appiglio. Di strada ce n’è ancora tanta, se non mi muovo facciamo notte. Questo breve scambio di battute è rappresentativo di com’è andata fin qui, del fatto che per il passo oratorio c’è stato poco spazio, schiacciato dall’impegno della salita.
Finiamo la placca più lunga della giornata ed arriviamo ad una terrazza, il panorama è fantastico, ci prendiamo una buona pausa per riposare, fare qualche foto e due parole con calma. Sul mio opuscolo questa era indicata come “terrazza dei picnic”, e a vederla non si può immaginare luogo più adatto. Se ci si dimentica della strada fatta per raggiungerla, ovviamente.
LUIGI: I come Immagini. Che mi sarebbe piaciuto molto condividere, se ne avessi fatte…
ROBGAST69: Un altro gruppo ci raggiunge, loro parlano molto più di noi, evidentemente il passo oratorio è possibile anche qui, per chi abbia un’abilità sufficiente. Ripartiamo in coda a loro, che non ci mettono molto a staccarci, inizia un’altra placca e io inizio ad accusare la fatica. Prima non curo abbastanza i miei moschettoni e rimango agganciato ad uno spunzone di roccia (per fortuna Diserzione è dietro e mi può liberare senza che io debba scendere in un punto decisamente scomodo), poi scelgo un passaggio da un piccolo camino e quasi mi ci incastro, nel frattempo l’uso della ferrata come appiglio ha smesso di essere occasionale. Mi convinco che è ora di tornare sul sentiero prima di restare bloccato chissà dove, mi spiace perché così praticamente costringo Diserzione a seguirmi, ma meglio questo che obbligarlo a trascinarmi su a braccia. Glielo dico e non se ne lamenta, dice che va bene, che comunque è stanco anche lui, ma non credo che se fosse dipeso da lui si sarebbe fermato. Se non altro evitiamo il ponte tibetano, così posso uscire dalla mia prima ferrata convinto che non siano necessariamente un luna park.
ROBGAST69: Finiamo l’ultima parte di questa placca, poi ancora qualche metro di salita facile, quindi il cavo d’acciaio che ci accompagna da due ore si interrompe e c’è un bivio. Sul sentiero di destra dopo qualche decina di metri la ferrata riprende, ma noi andiamo a sinistra, verso la mulattiera. Seguiamo il sentiero per pochi metri, poi lo perdiamo e decidiamo di farne a meno. Nel bosco muretti a secco e alberi caduti ed ormai quasi marciti raccontano di un territorio una volta vissuto ma oggi abbandonato. Altrettanto stridente il contrasto tra i due camosci che vediamo correre via, troppo veloci anche per fotografarli, e la striscia di terreno che incontriamo pochi metri dopo, sgombrata da alberi per far passare un elettrodotto ed in seguito anch’essa parzialmente invasa da tronchi caduti; in questo bosco stato naturale e antropizzazione si accavallano continuamente senza dare l’impressione di saper trovare un equilibrio.
LUIGI: S come Sacra. A occhio e croce, è la mia decima visita, la terza a piedi, cioè da quando sono disponibili le due mulattiere. E quasi tutte dopo il Nome della Rosa, la cui abbazia pare sia stata ispirata all’autore proprio dalla Sacra. Uno dei tre posti dove cerco di portare chi viene da fuori. Ricordo che nei fine settimana vige il senso unico in salita e discesa (su due strade differenti, ovviamente), ed essendo il parcheggio molto piccolo si vedono auto lasciate in posizioni stile kamasutra. Molto meglio salire a piedi.
ROBGAST69: Per trovare la strada Diserzione si basa più sul GPS, io più su un istinto allenato dalla pratica, alla fine mettendo insieme le due cose arriviamo alla mulattiera, anche se molto più in alto di dove ci aspettavamo. Qui ritroviamo finalmente il passo oratorio, e la cima arriva rapidamente. Raggiungiamo Marcobabouche, Luigi e Corrado in un piccolo bar preso d’assalto da turisti che in gran parte hanno parcheggiato la macchina duecento metri più in là. Naturale, visto dove ci troviamo, ma arrivare dopo una salita faticosa e trovare nello stesso posto qualcuno che ci è stato depositato da una macchina, una seggiovia o un elicottero, quasi senza muovere un passo, crea sempre una dissonanza.
LUIGI: T come Tomini. Siamo sufficientemente fortunati da recuperare un tavolo miracolosamente libero nell’unica locanda presente in vetta. Di solito parto con l’occorrente per il pranzo nello zaino, per scelta filosofica, ma avendo già conosciuto questo posto in passato ho fatto un’eccezione, e posso godermi il panino a base di tomini e acciughe che, innaffiato di Menabrea scura, conferisce al luogo una connotazione di conviviale spiritualità, a maggior ragione in un periodo in cui nei bar di Torino si beve prevalentemente acquasanta.
ROBGAST69: Mentre mangiamo io e Diserzione raccontiamo agli altri la salita, poi tutti e cinque vorremmo entrare almeno nella prima cerchia di mura della rocca, ma la Sacra è in pausa pranzo e ne avrà per un’altra ora, così iniziamo la discesa, prima scoprendo un tratto di sentiero diverso da quello della salita e poi rientrando sulla mulattiera più frequentata. In discesa parlo un po’ con Luigi, che non conoscevo, che si dichiara ‘informatico pentito’ come me; a differenza di me però lui oltre a pentirsi si è anche affrancato e non frequenta più i lugubri uffici in cui passo le mie settimane lavorative. Da lui mi faccio spiegare come si è liberato da un lavoro in dipendenza, sperando di poter presto applicare i consigli.
LUIGI: D come Discesa. Scendere è solitamente la parte meno piacevole delle mie escursioni, per via di articolazioni e dischi intervertebrali ormai alla frutta. Ma oggi è andata molto meglio, anche perché si scende in fretta. Anzi, è stata l’opportunità di raccontarci a vicenda che fino a oggi era mancata. Vedi G come gente.
ROBGAST69: La discesa è piuttosto breve, rapidamente arriviamo a valle, ed è ora di riprendere le macchine per il ritorno a Torino. Il mio primo dialogo con una ferrata mi è piaciuto, ce ne sarà sicuramente un secondo.