di Filo Sottile
Ma quello che cos’è?
«Peccato, mi dico, peccato non saper riconoscere tutti gli alberi, riconoscere le foglie e i tronchi. Sì, qualcosa riconosco ma non tutto». Sono parole di Yamunin, estrapolate dal suo récit d’ascension al Musinè. Sono parole sue, ma potrebbero essere mie. Nei boschi, in montagna, in città, nei parchi, nelle residenze private, innumerevoli volte mi è capitato di chiedermi: e questo che albero è?
Più cose conosci, più scopri d’essere ignorante e più cose vuoi conoscere. A novembre ho iniziato un corso di frutticoltura, l’esperienza mi ha entusiasmato e da allora la percezione dello spazio intorno a me è radicalmente cambiata. Non pago di quanto appreso al corso, mi sono procurato tre diversi manuali per identificare gli alberi e ormai esco di casa solo se ne ho almeno uno nello zaino.
Negli ultimi mesi ho scoperto che le magnolie non sprofondano sotto terra quando sfioriscono. Continuo a vederle, giuro. E nel giardinetto pubblico davanti casa non ci sono più “alberi”, ma aceri americani (acer negundo), carpini bianchi, platani, laurocerasi, ginepri sabini, tigli nostrali. Ho scoperto che uno dei sentieri che percorro più spesso, attraversa un bosco dove si alternano gaggìe (robinia pseudoacacia), castagni, ciliegi, farnie, roverelle, salici bianchi, noccioli, sambuchi. Credo anche, ma non sono ancora sicuro, di aver identificato alcuni esemplari di fusaggine (euonymus europaeus) e faccio la posta ai fiori per averne conferma.
Questa nuova passione arborea si è fatta il suo cantuccio in mezzo ad altre più antiche, narrazione e viaggi a piedi in particolare, che l’hanno influenzata fino al punto da far germogliare un’idea: l’alberismo molotov. Nei giorni in cui riflettevo su una deriva vegetale dell’alpinismo molotov, ho letto il Manuale del perfetto cercatore d’alberi di Tiziano Fratus (Kowalski, Milano 2013), una lettura che a fasi alterne mi ha entusiasmato e mi ha lasciato perplesso. Qui di seguito ho raccolto, inestricabilmente intrecciati, appunti e riflessioni sui perfetti cercatori di alberi e gli alberisti molotov.
No trees, no party
Tutti sanno che gli alberi producono l’ossigeno necessario alla vita degli esseri viventi, ma gli esseri umani si servono degli alberi non solo per respirare. Fratus in apertura del suo manuale scrive: «L’umanità è ciò che è grazie agli alberi, alla loro esistenza, alla loro presenza e varietà, alla loro produzione di frutti e fiori, alla loro mole, alle proprietà nutrienti e curative delle fronde, delle radici e delle cortecce. Senza gli alberi l’umanità non si sarebbe potuta difendere, non si sarebbe potuta evolvere, curare, emancipare». Cibo, riparo, combustibile, materiale da costruzione, nemmeno l’avvento delle materie plastiche ha diminuito l’importanza degli alberi.
Fratus continua: «Gli alberi sono gli unici esseri viventi che ci possono accompagnare per tutta la nostra vita. Non solo: prima di noi sono stati accanto ai nostri genitori, e dopo di noi veglieranno sui nostri figli e sui nostri nipoti». È un aspetto fondamentale: oltre a garantire il presente della specie (almeno finché non impariamo a vivere in apnea), gli alberi sono frammenti di passato e di futuro. Sono cerchi marcatori nel tronco del tempo e barlumi di ciò che sarà.
Gli umani seminano, piantano, potano, tagliano, sradicano, avvelenano gli alberi ogni giorno. Un rapporto strettissimo e per certi versi simbiotico. Laddove si muovono gli umani, se c’è un albero è perché qualcuno ha deciso di piantarlo o di non tagliarlo (ancora). Un albero antico è un albero che non ha mai dato fastidio o che è cresciuto in un luogo difficilmente raggiungibile o che è stato tutelato e difeso da qualcuno. Allo stesso modo, un bosco per sopravvivere ha bisogno dell’uomo: del suo disinteresse o della sua cura.
Azzardo, parafrasando Benjamin[1], un’ipotesi: un albero oggi è un presentimento nell’istante del pericolo. Ogni albero ci dice della nostra dipendenza dal mondo vegetale e della necessità di preservarlo per noi e per gli esseri umani (e non) che verranno. Nel Borneo la foresta vergine soccombe alle piantagioni di palme da olio, in Amazzonia viene soppiantata da piantagioni di soia, qui nella mia zona, per anni le villette a schiera si sono mangiate gli alberi.
Se esistesse un alberismo molotov…
L’alberismo molotov, così come mi è balenato in testa, non si oppone alla pratica di perdersi in un bosco per ritrovare se stessi, né al desiderio di recuperare un contatto individuale con la natura e con il mondo vegetale nello specifico.
L’alberismo molotov che ho immaginato, così come l’alpinismo molotov, è sorretto dalla logica del racconto, della critica militante e dell’esplorazione conviviale.
Fratus, per il suo perfetto cercatore d’alberi, stila un elenco di cinque compiti individuali e quattro compiti sociali. Eccoli:
1 – studiare le differenze del mondo animale e vegetale;
2 – imparare a distinguere le specie degli alberi, quelle autoctone e le molte specie esotiche che nella storia recente sono state importate da luoghi differenti, dette alloctone;
3 – attraversare il paesaggio più vicino e mappare l’esistente;
4 – nominare e rinominare alberi di particolare importanza;
5 – arricchire la propria vita e la propria immaginazione di spazi per nutrire lo spirito e risollevarsi dalle sorti di una esistenza complessa;
6 – rendere edotta la popolazione del vostro villaggio, della vostra vallata, della vostra città, della bellezza secolare ed eventualmente monumentale presente in quel territorio;
7 – sostenere i comuni e le città nell’operazione di comunicazione e diffusione dei monumenti verdi presenti e della loro storia, spesso ricca di aneddoti interessanti, non meno delle architetture più note e solitamente celebrate e delle opere d’ingegno degli esseri umani;
8 – creare attività turistiche e naturalistiche;
9 – suscitare emozione, compassione verso la natura che sfioriamo ogni giorno, e che siamo abituati a considerare in termini generici.
Non tutte queste prescrizioni sono suggerimenti validi per gli alberisti molotov. Il quinto punto, per esempio, sembra inviti a rifugiarsi fra gli alberi per sfuggire alle contraddizioni del mondo. Un alberista molotov si rifugia fra gli alberi solo per fabbricare nuove frecce da scoccare. L’alberista molotov, inoltre, è consapevole che il sapere è una costruzione collettiva e rifugge espressioni tipo “rendere edotta la popolazione”, così come prova a coinvolgere altre persone prima di dare un nome ad alberi di particolare importanza.
Tuttavia ci sono suggerimenti da raccogliere. Primo fra tutti quello che invita alla mappatura del territorio e alla ricerca di storie interessanti. Se esistesse un alberismo molotov farebbe proprio questo: mappe di alberi che raccontino contraddizioni e storie radicali.
L’alberismo molotov si può praticare ovunque: in città, in montagna, in campagna e anche laddove gli alberi non ci sono più. Ecco le prime tre ipotesi di lavoro che mi sono venute in mente. Una spedizione di alberisti molotov sulla collina morenica di Rivoli – Avigliana potrebbe raccontare la storia di quel partigiano che scampò a un rastrellamento nazifascista nascondendosi nel cavo di un castagno; una ricognizione molotov a Milano potrebbe descriverci le “meraviglie” del bosco verticale; gli alberisti molotov salentini ci aiuterebbero ad approfondire la questione xylella. E via così, le possibilità sono infinite.
Se esistesse un alberismo molotov potrebbe valorizzare e incoraggiare la botanica dal basso e il guerrilla gardening. Potrebbe anche raccontare di iniziative come quella di Giaglione (Val Susa) in cui privati cittadini hanno fatto colletta e piantato centododici lavande in un terreno demaniale incolto.
Il perfetto cercatore di alberi di Fratus dirige il suo interesse in particolar modo agli alberi monumentali: alberi molto grandi o molto antichi. Spende pagine su pagine su lunghezze, diametri, circonferenze a petto d’uomo e datazioni. Se esistesse un alberismo molotov, più che di misurazioni, si occuperebbe dei punti di intersezione fra la storia degli esseri umani e la storia degli alberi, gli snodi, gli incroci, le rotture, le alleanze.
E quindi?
E quindi: no, non vogliamo fondare l’alberismo molotov. Ci è sufficiente dichiarare il nostro interesse per il mondo vegetale nella particolare accezione qui descritta, che non si esaurisce nella tassonomia e in un sapere specifico, ma che vorrebbe fare di questa conoscenza un veicolo di altre narrazioni. Alcuni di noi infileranno negli zaini guide al riconoscimento di alberi ed erbe spontanee montane e, forse, prossimamente, immagineremo uscite a caccia di piante che abbiano storie da raccontare.
Non ci interessa nemmeno diventare perfetti cercatore d’alberi, piuttosto degli escursionisti eversivi più completi e radicali.
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[1]Cfr Walter Benjamin, sesta tesi di filosofia della storia.
Una curiosa e incendiaria lettura del °Manuale del perfetto cercatore d’alberi° | HOMO RADIX
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[…] >>> Perfetti cercatori di alberi e alberisti molotov. Appunti […]
Mr Mill
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Spesso mi chiedo con rammarico quanto abbiamo perso, in manco mezzo secolo, di sapere e conoscenza della cultura materiale che era contadina e che poi è stata metal-mezzadra. Per dire: gli alberi si conoscevano, si conoscevano le loro molteplici e uniche possibilità d’uso; si nominavano – come scrive Filo attraverso una nominazione sociale e condivisa – attraverso la parole e le lingue dialettali. I luoghi spesso si chiamavano con un dato nome per la presenza di una certa vegetazione, oppure di un albero con una sua storia precisa. Questo sapere io credo fosse un sapere di classe, i pàdrun non avevano accesso e nemmeno gli fregava d’averlo a quel mondo, loro speculavano su ciò quel sapere produceva attraverso lo sfruttamento di chi lavorava.
Filo giustamente riporta delle piante il nome scientifico, sempre indicato in lingua latina, che a me suona tassonomia fredda e immateriale, lingua di pochi e per pochi; altra cosa sono i nomi delle piante nei dialetti. Qui ci potrebbe stare l’aggancio con Gramsci prima e Pasolini poi, sulle loro analisi del rapporto dialetti-lingue nazionali, ma credo che non serva per capire quel che intendo, se si è inteso, piuttosto incasinerebbe queste poche frasi (per miei limiti, ça va…).
Penso poi che gli alberi possano trovare un posto anche nei récit di AM, nelle tante storie che di volta in volta vi vengono raccontate, perché ora che Filo lo ha fatto notare credo che mentre cammineremo gli occhi guarderanno in maniera diversa la vegetazione attorno, oppure interrogheremo chi con noi lungo il sentiero avrà con sé nello zaino una guida che parli degli alberi. E riporteremo tutto a casa, anche questo.
filosottile
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Sacrosanto, Mr Mill!
Ancora pochi decenni fa gli alberi facevano parte dell’orizzonte quotidiano delle persone.
Ho anche un aneddoto al riguardo: mio padre è il terzo di otto figli di una famiglia contadina. Lui fin dalla prima infanzia, l’unico, si è ribellato: in campagna non ci voleva stare, e così a sei anni è andato falegname. Mio padre di piante ne capisce ben poco. Eppure, qualche anno fa mi ha sorpreso, mi ha indicato un albero e in dialetto siciliano mi ha detto: “quello è una specie di sommacco”.
Ora, quell’albero non è un sommacco (rhus typhina), ma è un ailanto (ailanto altissima), albero il cui portamento somiglia molto a quello del sommacco.
Ora, la domanda è: perché mio padre sapeva qualcosa di quell’albero? Perché si tratta di speci infestanti. L’ailanto nel primo anno di vita può tranquillamente superare i due metri e, se non ci stai dietro, ti mangia la campagna. Deve aver visto mio nonno e i suoi fratelli e le sue sorelle, roncole in pugno, contendere ogni centimetro di terra fertile a un albero tipo quello.
A proposito del latino: il fatto è che a volte in diverse parti d’Italia con lo stesso nome “volgare” si intende una diversa pianta. Accade soprattutto per le erbe spontanee, qui in Piemonte è molto evidente: in tanti in primavera dicono di andare a cicorie, ma gli emigrati dal meridione non raccolgono tarassaco e non lo mangiano in insalata con le uova.
LoFi
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confermo che anche qui in Carso a Trieste molti chiamano il Tarassaco cicoria selvatica (che in verità è tutta un’altra pianta con tutto un altro fiore) o rucola selvatica (anche qui tutt’altra roba), e poi tutti chiamano gli asparagi selvatici “bruscandoli” che dovrebbe invece essere il nome del luppolo selvatico. Penso che la nomeclatura popolare se ne strafreghi di tassonomia e parentele genetiche, dando i nomi a seconda della similitudine del gusto o della forma con altre piante… Credo che a livello popolare uno dei principii regolatori sia quello utilitaristico, do il nome a una pianta a seconda di ciò che me ne faccio. Più che nomi sono “metafore d’uso”!
PS L’ailanto è maledetto, cresce ovunque e puzza un casino, però le api dai suoi fiori ne ricavano un miele buonissimo :-)
Mr Mill
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A proposito di Tarassaco, è proprio così come scrivete anche nelle valli bresciane/bergamasche. A questo punto c’è da chiedersi dove lo chiamino col nome corretto e non cicoria :-D
Mi chiarisco: certamente la denominazione scientifica in latino ha il fine di individuare con precisione una pianta, inserendola nella propria famiglia; io volevo giusto sottolineare che con la perdita della conoscenza popolare di piante ed erbe si è persa anche la lingua con cui nelle diverse aree geografiche si indicavano quelle stesse piante (o viceversa, o reciprocamente…). Proprio come ha scritto Lorenzo, “do il nome a una pianta a seconda di ciò che me ne faccio”; ecco, mi sembra che sia un processo di nominazione più materiale rispetto a quello scientifico.
Di aneddoti ne ho anche io vari, lascio qui solo un ricordo/immagine che mi è particolarmente caro: ricordo mio nonno materno che con il puditì (il falcetto, con cui tagliava il formaggio così come si tagliava le unghie…) intagliava quelli che sarebbero divenuti i suoi zoccoli; sono certo che seppur analfabeta aveva scelto con attenzione il legno e la pianta da cui ricavarli, attingendo a una conoscenza che sui libri – anche a saper leggere – non si può apprendere.
filosottile
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Ancora una cosa sulla cicoria che conferma il fatto che in ambito popolare si bada all’uso. Mauro Vaglio, autore di Erbe delle valli alpine (Priuli & Verlucca, Scarmagno 2014) scrive che una delle possibili etimologie di cicoria è dal greco kio (io vado) chorion (per campi). Io il greco non lo so, ma in ogni caso quadra. Cicoria è quella pianta che vado a cercare nei gerbidi.
filosottile
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Uno scambio di tweet interessanti.