Pubblichiamo oggi, in occasione del 71° anniversario del massacro di Lipa, il récit d’ascension antifascista che la sezione orientale di Alpinismo Molotov ha compiuto sull’Učka o Monte Maggiore, Istria / Croazia, il 1° marzo 2015. Un primo dispaccio di quell’impresa uscì su Giap il giorno stesso. Questa relazione è insieme complementare e integrativa, una non esclude l’altra. Ciò che si è privilegiato in queste righe è la riproduzione del passo oratorio e delle storie da esso evocate, più che la “scalata” vera e propria.
I nostri bastardi senza gloria sull’Ucka: Barbara, MisterLoFi, Rikutrulla, Alessandro, Tuco, Scalva, Federico, Vigj e Ciopsa. Special guest nel récit, Beppe Vergara. Con un cameo di Piero Purini.
Buona defascitizzazione.
Prima parte: guerriglia (culturale).
Due gran montagne dividono l’Italia dai barbari, l’una dimandata monte Caldera, l’altra monte Maggiore nominata.
Così diceva Leandro Alberti (1479-1552) o almeno così sostenne Mazzini nel 1866 rivendicando all’Italia l’Istria, la “Carsia” e le Alpi Giulie. Curioso è che nella regione attorno al monte Maggiore-Učka – la fantasiosa Venezia Giulia – nel 1927 abitassero diverse persone di cognome “Alberti”, peccato che fino a qualche anno prima però si chiamassero Abracht, Albrecht, Avber, Albert. Il Maggiore fu lo spartiacque rivendicato anche da Salvemini nel 1916, uno non proprio in odore di fascismo. Sembrava che il “patriottismo” italiano, anche quello più a sinistra, non riuscisse a prescindere dal dominio della vetta più alta dell’Istria. Eppure questo rilievo, punto d’incontro della catena dei Vena e dei Caldiera, non fu storicamente territorio d’italiani, piuttosto pascolo per i pastori cicci, popolo di lontana ascendenza valacca, più o meno slavizzato (per assimilazione “naturale” lungo i secoli, ndr), deriso dagli abitanti della costa per la sua arretratezza o forse solo per la deliberata assenza di dimestichezza con la civiltà marinara: “cicio no xè per barca” è il detto che li stigmatizzava, ripetuto ancora oggi ogni qualvolta un individuo dimostri scarsa propensione per una qualsivoglia arte.
Salvemini era convinto che un confine posto su questo spartiacque avrebbe contribuito alla fratellanza delle genti italiche e slave, un errore madornale di geografia che sarebbe risultato fatale per i popoli di questa penisola, qualunque lingua parlassero. L’Amministrazione militare italiana dopo il 1919 e quella fascista infatti infersero una ferita purulenta a queste terre, legando il tricolore italiano a sopraffazione, violenza e morte, specie quando l’Italia invase la Jugoslavia nel ’41 avviando una politica di deportazione di interi villaggi croati e sloveni, anche istriani – tecnicamente cittadini italiani – in campi di concentramento come Rab/Arbe, Molat/Melada, Gonars e tanti altri. Campi di morte assurdi: a Molat – ci ricorda Tuco – si fucilavano i prigionieri come rappresaglia per i pali di telegrafo abbattuti dai partigiani.
Da qui lo sdegno che ci assalì quando lo stesso Tuco ci riportò la notizia di una sortita delle Muvre, il gruppo escursionistico dei neofascisti di Casaclown, sul monte Maggiore in occasione del giorno del Ricordo del 2014, a sventolare tricolori e rivendicare l’italianità sulla sponda orientale dell’Adriatico, proclami sinistri proprio per il loro portato storico su questa vetta. S’imponeva una contro-sortita a disinfettare il monte ma non era solo questo, noi si voleva salire sull’Učka o Maggiore per dire che i fasci lì proprio non c’entrano un cazzo e non ci azzeccano proprio con l’andare in montagna tout-court. Cicio no xè per barca? Può essere, ma di sicuro Fascio no xè per monte. Ce lo ricorda anche il grande alpinista Ettore Castiglioni:
Il vero alpinista non può essere fascista, perché le due manifestazioni sono antitetiche nella loro profonda essenza.
Ciopsa: Due animali accompagnano questa escursione: le cavre, simbolo del gruppo di amici montanari/alpinisti di cui fa parte MisterLoFi, e il muflone (la muvra) il simbolo invece della sezione di montagna di Casapau.
Da quando ho scoperto che il muflone lo usano quelli di CasaBabau non posso non accostare questo loro simbolo alle storia dei mufloni narratami quest’estate da Paolo, lontano parente che vive a Giustino, piccolo comune della Val Rendena (Trentino occidentale: la valle che separa il Brenta dall’Adamello-Presanella) di cui sono originario.
Paolo in una serata estiva a pochi giorni dal via delle stagione della caccia mi racconta della sua passione per quest’ultima e mi dice che quest’anno punta al maschio muflone capobranco. Chiedo spiegazioni: a me non risultano mufloni in val Rendena. Certo che sì, ribadisce lui, ne esistono infatti da quelle parti due branchi: uno che staziona in val Nambrone (territorio di caccia della sezione di Carisolo) e l’altro che sta su sui pratoni alti in val di Genova (val di Nardis ed oltre che è territorio di caccia della sezione di Giustino, quella di Paolo). Mi racconta che li hanno introdotti qualche decennio fa (mi sono poi documentato: esattamente nel novembre del 1972) e che d’allora son cresciuti e diffusi ed adesso son lì che vivacchiano in due branchi di 40/50 esemplari ciascuno, sopravvivendo ai freddi inverni grazie al “volontariato” dei cacciatori che in due apposite mangiatoie portano su fieno e cibo per questi mufloni fuori luogo e fuori tempo. Esistono anche diversi filmati su youtube che ritraggono questi animali che in “statuaria e fiera posa si accingono a mangiare”, in realtà una corsa sfrenata al cibo pazzesca, povere bestie…
Paolo mi racconta pure di un tentativo di totale eliminazione di qualche anno fa (in questo caso non ho riferimenti precisi) promosso dall’ente Parco Adamello-Brenta ma fieramente ostacolato da tutte le sezioni cacciatori della valle con metodi che potrebbero ben entrare nei concetto di iperterritorialità che si legge nel libro di Arnoldi (Tristi Montagne. Guida ai malesseri alpini, ndr).
Sicché il nome “Muvre” della sezione montana di CasaSquaraus mi fa ridere; ‘sti forti e arditi escursionisti scelgono come loro animale totemico un animale che sulle Alpi non c’è proprio dimostrando quanto poco ne sappiano di montagna.
MisterLoFi: Ci ritroviamo in nove nella piazzetta di Trebiciano/Trebče, Carso triestino, il 1° marzo 2015. Si uniscono una parte dei reduci del TriglavMolotov, come il sottoscritto, Tuco, Rikutrulla e Alessandro nonché nuovi accoliti, come Barbara – ahilei unica compagna, fondamentale nella documentazione fotografica – e altri amici come Scalva, Federico, Vigj. Scalva era per me una sorta di figura leggendaria, il misterioso Gufo anarchico della rete, già evocato sul Triglav. Solo in vetta peraltro ricollegherò il suo volto al nickname! Federico sarà provvidenziale per la logistica, senza lui e la sua auto non saremmo qui a parlare di questa avventura, oppure ne parleremmo solo a metà… Vigj invece è nientemeno che il mio paziente maestro di apicoltura di cui ignoravo l’affezione sia a Giap che alla montagna, nonché la comune amicizia con Rikutrulla, ma che già stimavo per l’autorevolezza con cui maneggia fogli cerei e smielatori e per la sua generosità nel diffondere la cura delle api nel mondo, dal Friuli a Longera e al Chiapas. Anche per lui galeotto fu il Triglav, leggendone il récit su Giap: “Lo, alla prossima uscita molotov chiamami!” Promessa mantenuta. E poi c’è Ciopsa, uno dei primi iscritti non per cooptazione a palesarsi.
Ciopsa: Bazzico da poco la mailing list di Alpinismo Molotov, attirato dai récit postati su Giap. Mi sono autoiscritto e al momento me ne sto alla finestra ascoltando e cercando di capire di che si parla e come si parla. Poi quando qualcuno lancia l’idea di andare a defastiscizzare l’Učka penso ecco l’occasione giusta per andare a conoscere almeno la componente oriental-triestina e dare un volto ai nomi e vedere se mi gusta… Una fortuna combinazione di eventi mi permette di agganciarmi alla spedizione in modalità “last minute” e quindi alle 7 della mattina ce la faccio ad essere a Trebiciano a conoscere i molotov orientali.
MisterLoFi: Sono il navigatore del gruppo e riesco miracolosamente a non sbagliare strada, a dire il vero proprio grazie a Ciopsa, cicloviaggiatore appassionato di queste lande. La strada è piuttosto tortuosa, punteggiata di località che non compaiono in nessuna mappa. All’altezza di Vranja incrociamo una frazione chiamata “Purini”…
Piero Purini: la cosa più divertente del villaggio Purini è che il primo cartello lo hanno piazzato male e non porta da nessuna parte. Come dir che ga ragion Cristicchi: “Purini? No xe niente de lui!»
Alessandro: Scendiamo dalla macchina, guardo Tuco, e dico sommessamente – Non avremo mica sbagliato tutto? – Dopo un viaggio di andata trascorso in un battito, senza sbagliare una strada, e anche senza incontrare in pratica nessuno, dopo pochi tornanti, leggeri e innevati, ci aspettiamo tutto. O niente, a seconda. C’è un piccolo parcheggio, a pettine. Spetta, credo, agli ospiti del rifugio – massì dai, chiamiamolo rifugio. Del resto, siamo a 1000 metri.
Si chiama DOPOLAVORO in italiano, e senza la dovuta traduzione. Dopolavoro.
Sembra chiuso, siamo lì poco prima delle undici, e c’è solo un grosso cane, che ci guarda e abbaia, ma senza rabbia nei nostri confronti. Se per caso poi ci fermiamo a bere qualcosa, penso, chiederò lumi sul Dopolavoro. Sia sull’origine del nome, sia a quale lavoro si riferisca.
La giornata è bella, neanche tanto fredda, immaginiamo già una vista perfetta, lassù. Ho fatto stampare, e plastificare, il nostro distintivo, da lasciare eventualmente al posto di qualche inappropriato tricolore.
Alpinismo Molotov. Quando iniziamo la salita, decidiamo, non proprio all’unanimità, di prendere la strada carrabile. MisterLoFi dice che non va bene, che dobbiamo seguire i sentieri che tagliano la strada, che solo così la salita avrebbe potuto essere Molotov.
I sentieri sono ancora innevati, poco battuti, e ripidi. Mai visto un gruppo così compatto e deciso, pronto a disubbidire agli ordini di un capogita. Si va per la strada carrabile. MisterLoFi non insiste, sa di non avere scudieri al suo fianco. Molotov o poco molotov, rimane l’idea di rinfrescare le poche idee di Casabau. Ed è quello che conta.
MisterLoFi: Si vabbè, passi che alpinismo vero e proprio finora non l’abbiamo ancora fatto, ma incamminarsi su una strada asfaltata per raggiungere una vetta è proprio auto-dissacrante al massimo. Ma checcefrega, questo è Alpinismo Molotov, basato sul passo oratorio. Il sentiero è troppo stretto e scivoloso, non consentirebbe il formarsi di assembramenti sufficienti ad un’orazione collettiva, vada dunque per l’asfalto. Prima di partire però non ci dimentichiamo che siamo qui per scopi bellici, la guerriglia che ci apprestiamo a combattere è culturale, sicché l’arsenale di cui disponiamo è adeguato all’occorrenza: una biblioteca, nientemeno, messa a disposizione da Vigj.
Ognuno si scieglie l’arma ed il calibro che più lo mette a proprio agio, io propendo per “In spagna per la libertà” di Marco Puppini, sottotitolo: antifascisti istriani, friulani e giuliani nella guerra civile spagnola.
Gli altri calibri sono:
La Scintilla Zapatista di Jérôme Baschet
Lotte contadine nel Friuli orientale 1891 – 1923 di Renato Jacumin
Fucilate i fanti della Catanzaro di Marco Pluviano e Irene Guerrini
Cime irredente di Livio Isaak Sirovich
Battaglione Alma Vivoda di Marietta Bibalo, Aldo Soia e Paolo Sema
Operazione “Foibe”: tra storia e mito di Claudia Cernigoi
Con queste armi ed il passo oratorio emergono infatti storie dissonanti, identità plurali. In effetti c’era una certa comunità di italiani in zona, poco più a Sud, nella Val d’Arsa che si apre proprio ai piedi dell’Učka. Si trattava perlopiù di immigrati ancora sotto l’Austria, dal Trentino, dal Bellunese, persino dalla Sicilia, impiegati nelle locali miniere di carbone e nelle cave di bauxite. Costoro nel 1921 insorsero contro i padroni edificando nientemeno che la Repubblica Sovietica di Albona, edificata in reazione allo squadrismo fascista, hai capito quanto fregava loro dei sacri confini della patria?
Vicino ad Albona si trova la località di Vines dove è localizzata la “foiba dei colombi”, probabilmente la più sanguinaria dell’insurrezione popolare del settembre 1943, in essa furono recuperate 84 salme di cui 12 appartenenti a soldati tedeschi. La propaganda di destra – e purtroppo anche di Stato – la vorrebbe elevare a simbolo della ferocia “slavocomunista” ai danni degli italiani, invariabilmente innocenti. Eppure nei tribunali del popolo che decisero quegli infoibamenti figuravano molti italiani, sicuramente molti minatori, e tra gli infoibati molti appartenenti a quel potere che nel ’21 aveva condotto una violenta repressione dei moti operai nonché membri dell’autorità mineraria. Ricordiamo che nel 1940 si verificò un disastro minerario che causò la morte di 185 minatori più 147 feriti, incidente messo a tacere dall’apparato fascista e dalla proprietà ma che i locali non dimenticarono, e la rabbia in tre anni fatica a raffreddarsi…
Le storie dei minatori dell’Arsia incuriosiscono Rikutrulla, molti immigrati nell’albonese erano infatti suoi conterranei bellunesi. Ecco che si manifesta l’incantesimo del passo oratorio.
Tuco: «Dalle mie parti, nella valle del Biois…» Mi si drizzano subito le antenne: «Riki, sul serio sei della valle del Biois? Raccontami della strage».
Il fatto è che c’è qualcosa che collega la valle del Biois, nel bellunese, con questi monti a picco sul mare: è il Polizeiregiment “Bozen”. Formato in un primo tempo da volontari e successivamente da coscritti sudtirolesi, il “Bozen” fu una delle formazioni collaborazioniste nate dopo l’ 8 settembre 1943 nelle zone dell’Italia settentrionale controllate direttamente dal Terzo Reich, l’ OZAV (Operazionszone Alpenvoreland) nel bellunese e nel Tirolo meridionale, e l’OZAK (Operazionszone Adriatisches Küstenland) nel Friuli e nelle cosiddette province orientali – Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. Il “Bozen” era composto da “dableiber”, cittadini italiani di lingua e cultura tedesca. Erano stati vittime della politica di italianizzazione forzata portata avanti dal fascismo. Odiavano l’Italia e gli italiani, e consideravano i nazisti pressappoco dei liberatori. Il “Bozen” era diviso in tre battaglioni. Il primo venne utilizzato in azioni di repressione antipartigiana nella zona tra Fiume e Trieste, il secondo per lo stesso tipo di “lavoro” nel bellunese. Il terzo venne spedito a Roma.
Nell’aprile del 1944, nel corso della cosiddetta Operazione Braunschweig, il primo battaglione del “Bozen” partecipò, insieme al battaglione SS-Karstwehr e ad alcuni reparti italiani dell’esercito della R.S.I., a una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona compresa tra l’Učka e lo Snežnik (monte Nevoso). I rastrellamenti si concludevano regolarmente con l’incendio dei villaggi e con la deportazione degli abitanti alla Risiera di San Sabba, sotto la supervisione di Christian Wirth, uomo di fiducia di Odilo Globočnik. In questa foto si può vedere il “Bozen” in azione a Gornji Turki, vicino a Fiume:
E poi c’è Lipa. Il 30 aprile i partigiani croati colpiscono con un mortaio il presidio dei carabinieri di Rupa, situato nel punto in cui la strada proveniente da Fiume si biforca: a sinistra si va a Trieste, a destra si va a Lubiana. Di lì a poco sopraggiunge da Fiume la colonna del “Bozen”, e i carabinieri si precipitano a chiedere soccorso. Dalla collina i partigiani sparano ancora col mortaio e fanno fuori cinque soldati. Il capocolonna allora chiama il comando di Ilirska Bistrica e dopo alcune ore arriva il “Karstwehr” in forze. Là sulla collina, dove i partigiani hanno sistemato il loro mortaio, c’è Lipa. Il villaggio viene circondato, e per quattro ore i soldati uccidono, stuprano, saccheggiano, incendiano. Poi radunano i superstiti, li fanno mettere in fila, e comunicano loro che saranno deportati. Ma quando la fila raggiunge l’ultima casa del villaggio, i prigionieri vi vengono rinchiusi tutti all’interno. I soldati tirano fuori le taniche di benzina, e ne spargono il contenuto tutto intorno. Poi lanciano delle bombe a mano, e la casa prende fuoco. Alla fine di quel 30 aprile, a Lipa i morti saranno 263.
Il 26 maggio Christian Wirth sarà fatto fuori in un agguato dai partigiani sloveni pochi kilometri a ovest di Lipa, sulla strada per Trieste.
Il 20 agosto 1944 invece vede all’opera il secondo battaglione del “Bozen”, insieme alla Divisione Corazzata paracadutisti “Herman Göring” e alla SS-Gebirgs-Kampfschule. Nei comuni di Falcade, Canale e Vallada Agordina i nazisti, dopo il loro passaggio, lasciano dietro di sè 44 civili uccisi, 245 case distrutte, 650 persone senza tetto.
Riki racconta che nel 1979 suo nonno testimoniò al processo, che si concluse con l’assoluzione di tutti i militari coinvolti nella strage e con la condanna all’ergastolo dei due comandanti dell’operazione – condanne peraltro mai scontate.
Il terzo battaglione del “Bozen” è quello saltato per aria in via Rasella il 23 marzo 1944, nel famoso attentato organizzato dal GAP di Roma. Questa è la parte di storia che conoscono più o meno tutti: dopo l’attentato i nazisti per rappresaglia ammazzano alle Fosse Ardeatine 335 ostaggi prelevati dalle carceri di Via Tasso e di Regina Coeli. È “Roma città aperta”, è Anna Magnani che corre dietro al camion e viene abbattuta da una fucilata… Fa parte dell’immaginario collettivo in Italia. E della “religione civile” repubblicana e antifascista.
29 marzo 1981. Nel cimitero di Bolzano-Bozen viene inaugurata una targa in memoria dei 33 soldati del “Bozen” fatti saltare in aria dal GAP di Roma. Nella targa c’è scritto: einem hinterhaltigen Bombenanschlag zum Opfer gefallen – caduti vittime di un vile attentato. Alla cerimonia sono presenti, oltre alla dirigenza della SVP e agli Schützen, anche un nutrito gruppo di neofascisti italiani provenienti da varie città del nord e da Roma. La storia produce strani cortocircuiti. Quegli stessi Schützen che pochi anni prima avevano fatto saltare con la dinamite i monumenti fascisti di Bolzano, si ritrovano a onorare i caduti del “Bozen” insieme agli odiati fascisti italiani. Ciò che li tiene insieme è il rifiuto della “religione civile” repubblicana e antifascista di cui si è detto sopra. Per i fascisti italiani, i caduti del “Bozen” sono vittime innocenti dei partigiani comunisti e rappresentano dei nobili martiri (nazi)fascisti da onorare. Per gli Schützen i caduti del “Bozen” rappresentano un simbolo della “resistenza” sudtirolese contro gli italiani, identificati in toto con la politica antitedesca del regime fascista – proseguita peraltro per parecchi anni anche nel dopoguerra democratico e antifascista. Nessuna discriminante antifascista, quindi, per gli Schützen. Come ha scritto il giornalista e storico sudtirolese Christoph Franceschini nel 1994, il Sudtirolo non ha mai fatto veramente i conti col nazismo. Un’altra cosa che li tiene insieme è la narrazione vittimistica dell’attentato di via Rasella. Per entrambi, neofascisti e Schützen, i soldati del “Bozen” erano poveri padri di famiglia costretti a indossare la divisa contro la loro volontà – il che peraltro contraddice la loro rappresentazione come “martiri” o “resistenti”, ma non ha senso cercare coerenza nel Mito.
Osservando la storia da luoghi dimenticati, come Lipa, come la valle del Biois, è possibile smontare la narrazione vittimistica degli amici-nemici che onorano insieme i “poveri padri di famiglia” del “Bozen”. E, forse, anche restituire alla storia tutta la sua complessità, appiattita dalla “liturgia civile” repubblicana e antifascista. E ribadire che ci sono tanti fascismi, e che l’antifascismo li combatte tutti.
MisterLoFi: Dopo poco più di un’ora e mezza arriviamo in vetta, ognuno stringe la propria arma che diventa il nostro volto davanti all’obbiettivo. Carnevale è finito ma troviamo pure il tempo di inscenare un’improbabile lotta fra “il porco fascista” e Scaramouche (si rimanda a Giap per la cronistoria).
Sulla torretta sommitale salta fuori da uno zaino una bandiera NO TAV. Un saluto dagli orientali agli “occidentali” di AM e un occhio alle lotte di oggi, che defascistizzazione o meno non siamo venuti qui solo a contemplarci l’ombelico. Peraltro anche questa montagna sconta un orribile traforo, l’Učka Tunnel, ormai storico, che ne squarcia un fianco proprio in corrispondenza dello spettacolare canyon Vela Draga, luogo di falesie, torrioni e aghi di roccia arditissimi scoperti e scalati per la prima volta da Emilio Comici ed i suoi sodali. È la cazzo di risonanza.
A testimonianza poi del fatto che questa cima non è lasciata in pace proprio da nessuno, alle nostre spalle si stagliano giganteschi ripetitori radio-TV. Da queste potenti antenne veniva e viene tuttora sparata Radio Capodistria fin nell’Emilia, un tempo emittente socialista jugoslava amata in quelle terre “rosse” padane. Proprio da lì provenivano le improbabili richieste di dediche di “Bandiera Rossa” o dell’Internazionale per il proprio nipotino di due anni da parte di nonne militanti, mentre i locali ascoltatori istriani si domandavano come cacchio facessero ad amare tanto ‘ste fanfare gli italiani, loro che le sentivano ogni giorno e che magari anelavano ardentemente di sentir passare in radio Bitanga i Princeza dei Bijelo Dugme…
Alessandro: Come da progetto iniziale, e nemmeno tanto originale, una volta ritornati al parcheggio decidiamo di bere qualcosa.
Entriamo, e chiediamo il permesso di poter solo bere, senza mangiare, cosa che avevamo già fatto in vetta. Un uomo alto, non tra i più simpatici tra quelli che abbiamo incontrato, che potrebbe tranquillamente venir assunto per questa sua caratteristica presso il rifugio sotto il Triglav, ci fa accomodare in una saletta aperta. È pelato, cioè rasato. Dopolavoro in italiano, rasato il cameriere… MisterLoFi studia la via di fuga, in caso di domande circa la nostra presenza sul posto. Fortunatamente, fila tutto liscio.
Il Dopolavoro, diciamo così, non è proprio quello che un vegano, o un vegetariano possono accomunare ad un’idea di paradiso. Dappertutto, ci sono animali imbalsamati, appesi e a terra. All’ingresso c’è un orso, addirittura. Sopra le nostre teste, aquile, falchi, donnole e tassi. Cervi e caprioli, come se piovesse.
Odio la caccia, per rappresaglia bevo acqua. I compagni una birra, annichiliti in parte dal cimitero esposto a bella posta, orgoglio penso del locale.
Non chiedo nulla circa il Dopolavoro, decido di mantenere questo dubbio; in compenso apprendo da una brochure che si mangia anche l’orso, anzi, testuale – vero orso – evidentemente da qualche parte ti rifilano orso che orso non è, come Vicenza e i gatti. Si può pagare anche con la carta, chissà quanto costa il povero orso…
Ci dividiamo, salutiamo e ripartiamo. Con il dubbio che rimane.
Seconda parte: Lipa.
30 aprile 2014, alla Casa della Musica di Trieste va in scena l’opera Lipa di Beppe Vergara, a 70 anni esatti dall’omonima strage. MisterLoFi e Tuco sono in prima fila assieme a Wu Ming 1. Qui forse è da tracciare l’origine della deviazione che segue la spedizione Molotov al ritorno dall’Istria. Una parte del gruppo va a casa a sbrigare le proprio incombenze e, purtroppo, a fronteggiare qualche allarme. In quattro ci rechiamo in questo paesetto a poca distanza dal confine sloveno-croato.
Ciopsa: Poco prima di arrivare riconosco, con una sorta di disagio che subito non comprendo bene, le strade percorse 4 anni fa in bici al ritorno da un ciclo-viaggio fra amici. Ci penso dopo a quel disagio e lo provo a mettere a fuoco e forse intuisco: pur viaggiando con lentezza, come solo la bici e le proprie gambe permettono, quel bivio per Lipa quattro anni fa non l’abbiamo preso perché nessuno di noi cicloturisti conosceva la tragica storia della strage avvenuta in questo paese. Io l’ho scoperta solo da poco leggendo le discussioni e i contributi su Giap. Sento che di fatto quel cicloviaggio è stata un occasione mancata e siamo stati poco ciclo-viaggiatori e molto cilcoturisti quel giorno di quattro anni fa quando abbiamo mancato un bivio.
Un ammonimento (in forma di disagio di cui sopra) al mio ego che blatera di viaggi ma alla fine fa solo il turista…
MisterLoFi: Entriamo in paese ed il cimitero-memoriale ci accoglie subito all’inizio, ristretto all’interno del perimetro di una casa dell’epoca distrutta dall’incendio. Le lapidi sono messe al posto delle finestre, affisse sulle mura, a tappezzare ogni anfratto del rudere. Gli spazi sono ristretti ma gli elenchi di nomi sono interminabili, raccolti per famiglia. Ogni nucleo familare include spesso nonni, genitori, nipoti, zii, tante generazioni con date di nascita diverse ed una sola implacabile data di decesso: 30 aprile 1944. In centro al paesetto si ritrovano i ruderi appositamente conservati dell’incendio. L’impressione è forte. Ci aggiriamo per la localtà semidiserta titubanti, i nostri sentimenti non sono poi diversi da quelli che anni fa accompagnò Beppe Vergara in queste contrade.
Beppe Vergara: Quando sono andato a Lipa, nel 2010 con l’idea di scrivere qualcosa su questo episodio sconosciuto ai più, devo confessarvi che mi sono sentito a disagio in quanto italiano. Era domenica e il paese era deserto, erano tutti in chiesa. Io e mia moglie stavamo guardando da fuori il memoriale, quando tutte le persone sono uscite e sono venute verso di noi. Ho dimenticato di colpo tutte le domande che volevo fare e pensavo solamente al fatto di essere un intruso, una persona non desiderata, non voglio arrivare a dire nemico, ma per un attimo mi sono pentito di essere lì. Badate bene che un pensiero del genere a Trieste, prima della partenza, non mi aveva nemmeno sfiorato. È stato proprio esser in paese, legger quel “talijanski” e tutto il resto a farmi pensare che essere imbarazzati per essere italiani, anche se antifascisti, forse non era così fuori luogo.
A farmi capire invece di esser fuori strada è stato per primo il signor Valencić sopravvissuto alla strage perché era fuori dal paese. La sua famiglia, madre padre e sorella, venne sterminata. Si ricordava ancora qualche parola d’italiano, che mi ha precisato con vigore, era stato costretto ad imparare ma erano proprio poche parole e la comunicazione, per me che non conosco il croato, è stata difficile.
La seconda persona che mi ha fatto capire che i miei timori, in quanto italiano, erano esagerati è stata la curatrice del piccolo museo di Lipa la signora Danica Maljavac che, nonostante si stesse allestendo proprio a lato dell’edificio che ospita il museo un pranzetto collettivo (a cui siamo stati invitati), ha aperto solo per noi il museo e nonostante parlasse l’italiano peggio del signor Valencić e nemmeno una parola d’inglese ci ha fatto da guida. Io ritengo questa signora la fonte più autorevole per capire cosa sia capitato a Lipa il 30 aprile del 1944. Sua nonna scampò alla strage perché fortunatamente fuori dal paese in quel tragico pomeriggio di sangue e, al contrario di altri suoi compaesani, era disposta a parlare di quello che era successo, perlomeno nei giorni immediatamente successivi alla strage, quando ritornò in paese. La signora Danica poi, fin da giovanissima si è dedicata alla ricerca di notizie riguardo quel giorno a partire dall’identificazione certa e del numero delle vittime. Ricerca durata anni. Se non sbaglio si è definito il numero di 269 vittime solo negli anni ’80.
Uno degli aspetti più tremendi di questa strage è che una grossa parte degli abitanti del paese (solo donne, vecchi e bambini) fu incolonnata e anziché esser deportata, come avveniva di solito, è stata rinchiusa e stipata in un unico edificio, il numero 20 a cui è stato data fuoco e dove tutti sono morti arsi vivi. Una crudeltà che facciamo difficoltà a capire come possa esser messa in atto. Quindi Lipa non è solo una strage, non è solo una strage dove su 269 persone, 121 erano bambini è anche una strage perpetrata in maniera talmente crudele e vigliacca da far rizzare i peli quando la si ascolta per la prima volta. Eppure resta un episodio ancora praticamente sconosciuto.
Uno dei motivi per cui ho scritto Lipa (il reading musicale) è ovviamente proprio questo oltre a quello di cercare di indagare nell’animo umano e capire cosa possa spingere dei soldati o dei miliziani o comunque degli uomini armati ad uccidere a sangue freddo un civile inerme magari un bambino. Sembra una cosa così lontana da noi e invece continua a capitare in ogni conflitto, anche oggi a 71 anni di distanza.
Un sesto grado di Alpinismo Molotov.
Poche le anime che si aggirano per il paese questa domenica, un puledro che ci guarda storto, una coppia di anziani e un paio di persone di mezza età ci guardano incuriositi. Non sono molti gli italiani che vengono davanti a questo monumento con il cappello in mano.
Abbiamo scherzato con il porco e Scaramouche, abbiamo gozzovigliato inorriditi al Dopolavoro, ci siamo goduti la giornata, ma se siamo riusciti a diffondere un po’ di più la storia di Lipa, come Beppe lodevolmente fa con il suo bel spettacolo, questa gita su strada asfaltata sarà a pieno titolo un atto di Alpinismo Molotov. Un sesto grado.
*gentile concessione di Beppe Vergara, tutte le altre fotografie sono di Ciopsa, Barbara, MisterLoFi, Tuco.
Učka/Monte Maggiore 1 marzo 2015. Un saggio di alpinismo antifascista - Giap
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[…] quel resoconto dettagliato ora c’è. Sul blog di Alpinismo Molotov. Nel 71esimo anniversario della strage nazifascista di Lipa. Il post è pieno zeppo di foto, e di […]
LoFi
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Sottolineo la toponomastica del récit, che abbiamo voluto mantenere il più possibile bilingue, non volendo turbare nessuna sensibilità. Siamo andati lì non solo a disinfettare la vetta dalle tossine di Casabrown ma anche a emendare lo stesso alpinismo in quelle terre. Giova infatti ricordare che l’alpinismo triestino, o meglio l’associazionismo alpinistico, fu strumentale all’opera di italianizzazione ignorante della toponomastica sulle Alpi Giulie e Dinariche, sia coniando diversi nomi inventati di sana pianta o recuperando oscure denominazioni della serenissima del tutto desuete, sia partecipando ufficialmente alle commissione che il Regno d’Italia costitutì nel ’21 per ridenonimare definitivamente ogni toponimo della Venezia Giulia (Il Regio Decreto 20 gennaio 1921 determinava dettagliatamente la Commissione assegnando un seggio ad un delegato del Club Alpino Italiano). Tale bonifica etnica è stata una sciagura non solo, ovviamente, per le popolazioni di lingua slovena e croata nel ventennio che hanno visto cancellare la propria identità ma pure, per reazione, alle comunità italiane che a tutt’oggi risiedono in loco e che ora vedono i propri nomi storici confusi con le italianizzazioni ignoranti dal nazionalismo croato che si serve di un falso antifascismo per sopraffare le minoranze. Il Monte Maggiore o Učka è uno di quei luoghi meticci, visibile da tutta l’Istria e quindi chiamato da ogni comunità nazionale presente sul territorio con il nome che gli é più familiare.
Učka/Monte Maggiore 1 marzo 2015.Un saggio di alpinismo antifascista | Senza Fissa Dimora / Nomadic Subject
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Sull’ “Operazione Braunschweig” segnalo questo articolo:
Petra Predoević, “Operacija Braunschweig” in Klepsidra, Rijeka (Fiume), Università di Rijeka, 2007, p. 11
consultabile qua: http://malleus.ffri.uniri.hr/index.php/klepsidra-2007/clanci
tuco
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Segnalo anche questo “diario di viaggio”, parte di un progetto dell’università di Regensburg “The Memory of War and Violence in the 20th-century northeastern Adriatic”. C’è anche una bella intervista a Danica Maljavac.
http://www.uni-regensburg.de/Fakultaeten/phil_Fak_III/Geschichte/istrien/route-lipa.html
Ricorrenze, alpinismo, diserzione e un museo nuovo |
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[…] Oggi sul blog di Alpinismo Molotov (e segnalato anche su Giap) è stato pubblicato un resoconto ancora più dettagliato di quella spedizione. Ci potete trovare, fra le altre cose, anche un mio ricordo della visita che […]
La resistenza sudtirolese #parte 3 « avanguardiedellastoria
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Una cassetta degli attrezzi – Operazione Porco Rosso
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ViaggiareLeggeri
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Come si dice in questi casi, meglio tardi che mai: vi ho scoperti solo ora, ma poteva andarmi peggio. Amante di Porco Rosso e ammiratore di Miyazaki-san, appassionato pedemontano di montagna che si ritrova a vivere nella patria dell’Helvellyn, cultore della storia del XX secolo e dintorni da quando lessi l’enciclopedia di Petacco a dieci anni. Presentazione non necessaria, ma m’è scappato quel paragrafo mentre stavo pulendo la tastiera.
Vi ringrazio per aver scritto questo ‘pezzo’, e procederò a leggere altre vostre cose.
Ciau