Roberto Gastaldo: Nel récit del Musinè – ma anche in alcuni tweet con hastag #alpinismoMolotov – ho trovato prese di posizione piuttosto dure sulla corsa in montagna. Ora, è vero che – secondo il manifesto del collettivo – “L’Alpinismo Molotov NON è sport” e “il suo passo è il passo oratorio”, quindi l’Alpinismo Molotov non c’entra nulla con la corsa in montagna. Ciò, però, non implica un’aperta contrarietà: in un prato si può leggere, giocare a calcio e fare un sacco di altre cose senza che tra queste ci sia contraddizione. Sarà che ho sempre praticato corsa in montagna (e se ne avessi modo e tempo lo farei ancora) ma io non esprimerei mai stroncature del genere: per chi non è atleta, la corsa è spesso un percorso di conoscenza di se stessi, più che agonismo. E poi bisogna tenere conto che non di rado – almeno dalle mie parti – persino le gare di corsa in montagna hanno espliciti “riferimenti Molotov”: nella sola val di Susa ci sono due gare a ricordo di battaglie partigiane.
Wu Ming 1: Io, tra l’altro, ho una cara amica che fa corsa in montagna e apprezza tantissimo gli scritti di Alpinismo Molotov!
VecioBaeordo: Concordo con il non sequitur: il fatto che l’Alpinismo Molotov non c’entri nulla con la corsa in montagna non implica la sua contrarietà. E se ho colto il riferimento alle due gare “partigiane”, una delle due dovrebbe essere quella di Balmafol (dico bene?). Aggiungo che il Musinè è da sempre il posto dove i möntagnin torinesi vanno ad allenarsi quando non hanno molto tempo o quando non si può andare altrove: si esce da lavoro, si raggiunge Caselette, si sale e si scende in meno di due ore (quando l’allenamento c’è) e si torna a casa per cena; non sarà il classico “andare in montagna”, non sarà certo “alpinismo”, non ci vedo nulla di Molotov, ma poi quando queste cose si fanno il fiato c’è.
Roberto Gastaldo: La prima è proprio quella di Balmafol, l’altra è il Challenge Stellina, che fino a dieci anni fa era – esclusi i mondiali – la più importante gara di corsa in montagna. Per gli standard economici dellla corsa in montagna uno sponsor come Bolaffi può fare la differenza.
Filo: A me fa tanto piacere che la gente corra in montagna e non mi dà nessun disturbo (mentre per i quad-disti e i motocross-isti invoco cura Robespierre): sono contrario per me. Correrò in montagna il giorno che qualcosa di molto brutto mi inseguirà.
Martina: Io sono dell’idea che la montagna sia di tutti e tutte per farci quello che vogliono, nei limiti in cui “quello che vogliono” non comporti problemi per chiunque altro (animali compresi) e non alteri o distrugga la montagna stessa. La corsa in montagna come pratica non mi ispira (né credo faccia per me, anche a volerlo) ma non ho nulla da recriminare a chi la pratica. Poi, anche tra i corridori c’è chi ha cervello e chi no: mi è capitato, scendendo pendii ripidi e rovinosi, di avere corridori alle spalle che – fottendosene altamente – cercavano di scaricare tutto il ghiaione sulla mia testa… ma di idioti ce ne sono di ogni specie, e altrettante volte mi è capitato con incuranti escursionisti.
Yamunin: A preoccuparmi, nella nota di Roberto Gastaldo, è il riferimento alle “prese di posizione piuttosto dure sulla corsa in montagna”. Dopo aver riletto (forse troppo velocemente?) il récit del Musinè, non vi ho trovato posizioni dure… Visto che a me capita di andare giù pesante e rendermene conto in ritardo, se trovate che ci siano opinioni da correggere perché eccessive… beh, facciamolo! A me chi corre in montagna fa un po’ impressione: penso allo stress cui sono sottoposte le ginocchia, al fiato che ci vuole, al dolore dei muscoli… tutte cose che mi impressionano. Condivido, inoltre, la posizione di Filippo: probabilmente mi farà impressione fino al momento in cui non troverò una buona ragione per farlo anch’io.
Credo che la critica di Alpinismo Molotov nei confronti della corsa in montagna sia legata (se la memoria non m’inganna) a una qualche corsa in programma pochi giorni dopo (o prima?) della nostra camminata sul Rocciamelone. O ricordo male?
Mariano Tomatis: Dico la mia, prendendola da tutt’altra parte.
Tra prestigiatori c’è un’insinuazione “fine-di-mondo” che spunta in ogni discussione relativa a qualsiasi pratica illusionistica. La chiamo “fine-di-mondo” perché è in grado – a costo zero – di paralizzare la discussione o comunque spostare completamente il focus verso aspetti abbastanza irrilevanti.
Tale insinuazione è: “Sì, ma… è magico?”
L’insinuazione è potente perché la categoria del “magico” è talmente vaga, soggettiva e priva di consenso da consentire a chiunque di buttare in vacca la conversazione, perdendo di vista completamente il cuore della discussione. Beninteso: non credo che venga usata in mala fede e a questo scopo; si tratta di un effetto collaterale di cui la comunità non si rende conto, e che però impoverisce molto le conversazioni. Bandire l’aggettivo avrebbe, a mio dire, un effetto tangibile sulla qualità del dibattito.
Esempio: vedo un mago che mi fa impazzire. È talmente fuori dalle categorie che mi piacerebbe isolare gli elementi della sua performance che hanno un effetto tanto potente su di me… Lo segnalo, chiedendo numi. Molto spesso, invece di restare sul punto, la conversazione telematica si schianta contro il muro del… “Sì, ma… è magico?”
Il punto è che la categoria del “magico” è così vaga da essere praticamente inutile: trovo più fertile la ricerca di aggettivi più precisi, mirati, eventualmente insoliti, ma (almeno) in grado di delimitare le sensazioni che emergono dall’uno o dall’altro atto artistico. Preferisco “spiazzante”, “obliquo”, “sorprendente”, “misterioso”, “disturbante”, “perturbante”, ecc. Invece quando entra la categoria del “magico”, la vaghezza manda a quel paese tutta la ricerca di finezze nel giudizio.
A me scatta un prurito simile ogni volta che leggo una discussione del tipo: “Sì, ma… è molotov?”.
L’etichetta è così recente e priva di contenuti intrinsechi che il suo significato non potrà che emergere dall’insieme delle cose che faremo. Scrivere il Manifesto è già stato un (lodevole) tentativo di chiarirci vicendevolmente che cosa siano i confini di “questa cosa” che stiamo creando insieme, ma io mi sento molto in sintonia con Wittgenstein quando suggeriva di lasciar perdere il significato e concentrarsi sull’uso (“Don’t look for the meaning: look for the use!”).
Se questa mi sembra una buona linea guida all’interno di una mailing list privata, dove ci si chiarisce vicendevolmente il significato di qualcosa che non ce l’ha finché non glielo diamo noi, a me sembra diventare un must assoluto quando ci rivolgiamo all’esterno e pubblichiamo qualcosa sul blog: lì mi pare del tutto fuori luogo mettere in piazza frammenti di “questo è Molotov, questo non è Molotov” – quando neppure noi abbiamo le idee chiare. Cosa sia “Molotov”, all’esterno, emerge dalle cose che raccogliamo e da come le raccogliamo nel nostro andar per monti. Ma io non riesco a concepire una passeggiata che non sia Molotov “a priori” – e trovo, anzi, oziosa la discussione sul punto. Se la presenza di due Giapster è sufficiente per fare una spedizione Molotov, anche la scalata del Pirellone può diventarlo: la sfida è far emergere il lato Molotov sopito in tutto.
Probabilmente il mio atteggiamento risente di quello che vivo nell’ambito dell’illusionismo. C’è chi ritiene che il cilindro e il coniglio siano naturalmente magici per motivi di tradizione, mentre lo scopettone del cesso, l’ascella e il dromedario non lo siano. La sfida creativa che più mi affascina è quella di far emergere il “magico” che sonnecchia sotto traccia nello scopettone, nell’ascella e nel dromedario; ecco perché non credo che “magico” sia un aggettivo binomiale (o sì o no), applicabile all’una o all’altra cosa “a priori”. Lo stesso mi pare per “Molotov”.
Che il machismo non sia un tratto tipicamente Molotov mi pare assodato; ma il machismo usato in modo autoironico, per farne esplodere le contraddizioni, è Molotov a mille. Altri automatismi non mi convincono: possiamo forse dire che un partigiano morto lungo il sentiero rende Molotov una gita, mentre se a morire è stato un fascista tale componente decade? “Molotov” sarà sempre e solo il modo in cui si percorrerà quel sentiero, si riporteranno a galla quelle storie e le si metterà in relazione col presente.
Yamunin: Concordo con il preziosissimo contributo di Mariano. Come ho scritto diverse volte, solo camminando e scrivendo potremo far emergere il lato “Molotov”. Ragionando “a priori” rischiamo soltanto di scrivere stupidaggini.
Filo: Concordo anch’io con Mariano, e avrei voluto essere capace anche io di esprimere il medesimo pensiero. Erano riflessioni che avevo in testa a febbraio, mentre mi accingevo a scrivere il récit della manifestazione No TAV, la cui componente “Molotov” era stata oggetto di discussione. Il cosiddetto “tratto Molotov” – qualsiasi cosa voglia dire l’espressione – secondo me è sempre da ricercare e non sempre autoevidente. L’esempio più banale: se Wu Ming 1 si fosse fermato alla scorza, forse non avrebbe scritto un libro su un diplomatico di carriera, membro del Rotary Club…
Con Mr Mill stiamo lavorando a una recensione de Le montagne della patria, un libro molto importante, che prova a guardare la nostra storia riflessa nello specchio delle montagne; certo, affronta la Resistenza, il Vajont e Fra Dolcino, ma tocca anche i temi della paranoia da rimboschimento, delle tasse sulle capre, delle mappe appenniniche redatte per dar la caccia ai briganti… Sono grato al libro di Armiero per quanto di nuovo mi ha fatto scoprire e per i collegamenti sorprendenti che evidenzia.
Per me resta centrale un aspetto emerso mentre lavoravamo al manifesto: parliamo di montagna per poter parlare di tutto. Se guardiamo indietro a quanto scritto fino a oggi (Rocciamelone, Triglav, il pezzo su Inquieto, la recensione del libro di Abo, Musiné, eliski) emerge una nebulosa: si tratta di oggetti che gravitano insieme, in rapporto fra loro, ma ognuno sulla propria orbita. Lasciamo passare il tempo, prima o poi ci apparirà come il sentiero che abbiamo percorso. E allora cambieremo meta.
Frettolosamente.
MisterLoFi: Concordo totalmente con il punto espresso da Mariano, sia per le immagini che ha scelto, sia per le parole usate.
Tornando al punto, a me la corsa in montagna proprio non piace, ma proprio niente. Intendiamoci: non è che sono contrario all’uomo o alla donna che corre in montagna; liberissimi di farlo, ci mancherebbe. Non mi piacciono il business delle competizioni, il tiro iron-man, il carrozzone di sky e trail running, il serpeggiante doping di massa – anche solo di endorfine. Mi domando se, con tutti gli ambienti disponibili per una bella corsa campestre, sia proprio necessario oberare la montagna anche di questa incombenza (ma vale anche per le gare di mountain-bike, sia chiaro). So che mi renderò antipatico ai cultori della disciplina (tra i quali, peraltro, so che rientrano molti sinceri amanti della montagna) ma non riesco a vederla diversamente: tutte le più belle motivazioni che ho sentito a favore del trail running non sono riuscite a smuovermi da questa idea. Ma sono consapevole che si tratta di un’opinione, e di certo non voglio metterla nel manifesto di Alpinismo Molotov.
Fabio: Abbiamo affrontato il discorso in auto, durante il viaggio verso il Banff, e sono perfettamente d’accordo con MisterLoFi. Poi se uno vuole fare un percorso (parlare di sentiero non è corretto, in questo caso) con il cronometro al polso senza guardarsi intorno sono fatti suoi; da notare però la differenza: i piedi non distruggono i sentieri come le biciclette con le ruote da fuori strada.
Roberto Gastaldo: Sono d’accordo anch’io con Mariano, in particolare sulla necessità di guardare più all’uso che al significato – tenendo presente, però, che l’uso può non essere consapevole: la mia riflessione iniziale era proprio un invito a interrogarsi sull’opportunità (o meno) di assumere posizioni nettamente contrarie alla corsa in montagna. Personalmente sarei contrario a farlo, e magari ho riscontrato una certa durezza in quelle che – in realtà – erano soltanto battute finite nel discorso senza una forte intenzione (nel qual caso potremmo chiederci se non valesse la pena di starci un po’ più attenti tutti).
Il passaggio che, nello specifico, mi aveva fatto sollevare le antenne era questo: “Ogni volta ci schiacciamo ai bordi del sentiero per dargli strada. Nella mia testa riprende un discorso cominciato scendendo dal Rocciamelone e continuato su Twitter con alcuni altri giapster: a me quel modo di vivere la montagna, di corsa, con l’occhio al cronometro e pronti a trasformare in competizione ogni incontro fortuito [a me dico] proprio non mi interessa. (Filo)”.
Rileggendolo, in effetti, non è così duro: più che altro presenta alcuni luoghi comuni (occhio al cronometro, trasformare tutto in competizione) che dal mio punto di vista non sono assolutamente veri; probabilmente avevo combinato l’impressione con uno scambio di tweet cui aveva partecipato Yamunin. Qualcuno ci segnalava la corsa sul Rocciamelone, io avevo risposto che quella gara era una merda e Yamunin commentando che della corsa in montagna non ce ne frega nulla – ma con un tono che a me suonava “la corsa in montagna è merda”. Sono tweet un po’ vecchi, persi chissà dove…
Anche il fatto di praticare la corsa “senza guardarsi intorno” – come scrive Fabio – rientra nei luoghi comuni privi di aderenza alla realtà: correndo in montagna io mi guardo intorno per il 90% del tempo; non lo faccio solo in alcuni passaggi complicati in discesa (ma patendo di vertigini ci sono passaggi in cui non lo faccio anche camminando).
Sono anch’io contro i mega-eventi, a maggior ragione in alta montagna, dove le loro negatività si amplificano, però anche nelle gare non è necessariamente quello: a MisterLoFi suggerirei di andare a vedere la corsa di Balmafol o lo stellina, pezzi di una giornata di rievocazione di una battaglia partigiana.
Nella corsa in montagna trovo sbagliato l’atteggiamento della maggior parte dei praticanti (almeno dal mio punto di vista) ma non più di quanto lo sia nell’ambito dell’escursionismo e dell’alpinismo in generale.
Fabio: Rispondo direttamente a Roberto: se tu hai un approccio diverso sono contento per te – anzi, sarai molto più allenato e avrai fiato da vendere. Tu consideri “luoghi comuni” quelli espressi da me e Filo, ma è quello che si vede in giro; io non sentivo la mancanza di incrociare gente di fretta con maglie fluo, e negli ultimi anni questa moda ha cominciato a darmi fastidio.
Ovviamente ci si guarda intorno anche correndo, ma con attitudine, ritmi e tempi diversi, che non mi interessano: io mi voglio fermare in qualsiasi momento, non solo perché non ho più fiato: ogni passo è una scoperta, puoi osservare insetti, animali, fiori, sassi, nuvole. Non si tratta di convincere nessuno, solo di far emergere le differenze. Ovviamente non si scriverà un articolo sull’argomento (o è quello che stiamo facendo?), ma se nei testi questa differenza emergerà (come nel passo di Filo che hai citato) tanto meglio: se qualcuno afferma che una cosa non gli piace e ne spiega il perché, il lettore si farà la sua idea (magari definendoli “luoghi comuni”, come quelli nel récit di Filo). Non credo dovremmo aver paura di urtare la sensibilità di qualcuno: si chiama Alpinismo Molotov, mica Alpinismo Ecumenico!
A me è capitato di essere per monti il giorno prima di una gara e – quando l’ho saputo – ho tirato un sospiro di sollievo: ero felicissimo di aver anticipato l’uscita di un giorno. Se fosse stata una gara “partigiana” non sarebbe cambiato niente: mi infastidiscono anche i nastri bianchi e rossi (tipo cantiere) appesi ai rami e la sovrabbondanza di segnali – che in alcuni casi neanche si prendono la briga di togliere… Anche questo è un luogo comune? È evidente che chi gareggia non ha tempo per guardare dove va il sentiero, ma deve avere ben evidente il percorso al primo colpo d’occhio.
Visto che queste gare stanno diventando sempre più numerose e frequenti bisogna tenerne conto e informarsi prima (almeno, io ora faccio così): magari rischi di trovare ressa in un giorno che non ti aspetti (Val Resia a metà settembre, mica il 16 agosto sul Triglav…).
Roberto Gastaldo: Molto spesso non si vede quel che non ci si aspetta di vedere. Ripeto, sicuramente ci sono molti corridori come quelli che descrive Filo, ma ci sono anche molti escursionisti a cui tirerei col bazooka (e direi in percentuali simili) – eppure noi non critichiamo gli escursionisti in quanto tali, anzi… Il mio stimolo iniziale era inteso a individuare un eventuale orientamento comune da promuovere a “tratto caratteristico” dell’Alpinismo Molotov; dal dibattito che ne è nato ho inteso che, anche se c’è una buona componente “no run”, non c’è nessuna intenzione di prenderlo come elemento specifico: dunque nessun problema se Filo (o chiunque) esprime le sue riserve; quando finalmente riuscirò a partecipare a un’uscita in montagna mi sentirò libero di scrivere un elogio della corsa, senza aspettarmi che qualcuno resti stranito dal trovarlo in un pezzo di Alpinismo Molotov (come invece accadrebbe se scrivessi “…che fighi i quad sui sentieri!”).
VecioBaeordo: Concordo con il fatto che Alpinismo Molotov non sia Alpinismo Ecumenico, ma vorrei ricordare che nel récit sulla spedizione al Triglav ho io stesso ironizzato pesantemente sull’attitudine (o forse “inettitudine”) di chi si arrampicava lungo la ferrata senza cognizione di causa; se vogliamo dare una certa lettura, quello era un intervento snobistico, calato dall’alto, e forse lo era più di quanto io intendessi… in fondo non molto diverso da quello espresso dal tipico alpinista “vero” che torna da chissà quale salita e disprezza i “merenderos” (aka “cannibali” aka “indiani” – per via dei fumi delle grigliate) ammucchiati con le sdraio a bordo strada sul fondovalle. Gli stessi merenderos potrebbero essere infastiditi dalla “moda dei pile fluo” degli alpinisti o anche solo dal loro tono machista e puzzalnaso. A loro volta gli escursionisti “di base” potrebbero trovare irritanti quelli che scendono veloci con i bastoncini… io nei miei limiti scendo così e a mia volta sono irritato da quelli che stanno a mucchio sul sentiero in cinque, scendendo piano perché hanno le sneakers invece degli scarponi.
Lo evidenzio per dire che ogni apprezzamento espresso nei post può urtare qualcuno: un conto è se tali potenziali urti sono a titolo personale, un altro è se in qualche modo passano per “posizioni Molotov” (con i rischi che ha mirabilmente illustrato Mariano).
In altri termini: non possiamo usare l’espressione “Molotov” per regolare i nostri conti con tutte le categorie che ci stanno individualmente in culo per come si muovono o si vestono, nel momento in cui (come scriveva Martina) non portano un danno oggettivo al territorio (come invece fanno le bici, le moto, le teste-quad, gli elicotteri, ecc.).
Yamunin: Credo che il dialogo che sta emergendo sia importante: ognun* di noi ha modo di riflettere e rivedere – nel caso – le proprie convinzioni. Mi piacerebbe che di granitico restassero solo le montagne e la componente antifascista-e-partigiana. Il resto – ovvero tutto ciò che può problematizzare, mettere in discussione, ecc. – è per me il benvenuto.
Credo che la corsa (o l’escursionismo o l’alpinismo) con tanto di sponsor e relativa boria dia fastidio un po’ a noi tutt* e l’unica discriminante che vedo è questa: c’è corsa e corsa, c’è alpinismo e alpinismo. Credo che il nostro contributo sia quello di portare un punto di vista alternativo all’interno del mondo della montagna: una posizione che io stesso sto imparando a conoscere; un passo alla volta tracceremo il nostro sentiero Molotov. Solo qualche giorno fa Wu Ming 1 mi diceva che i récit collettivi non s’erano mai letti prima. Beh, fica come cosa!
Martina: Concordo con Yamunin e aggiungo – tra parentesi – che discussioni come questa (nate e portate avanti via email) possano anche essere una buona palestra per “perfezionare” la nobile arte della discussione su mailing list. Provo a dirlo evitando il tono da predica: penso che tutt* dovremmo sforzarci di stare attent* – via email – a come scriviamo cosa, per evitare scazzi che in una conversazione vis-à-vis non ci sarebbero mai, semplicemente perché l’elettronica maschera tono di voce ed espressioni corporee. Personalmente cerco di stare molto attenta al tono delle mie email, e nonostante questo mi rendo conto che – a volte – emergono fraintendimenti. Forse per un mio eccesso di sensibilità, ho notato anch’io, in alcuni interventi, l’uso di toni un po’ aggressivi: sicuramente non lo erano nelle intenzioni, ma quando prendono forma scritta, il loro contenuto risultano amplificato per dieci… Il bon ton è una palla enorme, ma discussioni che sfociano in flame sono pure peggio. Mi scuso se le mie parole suonano come un predicozzo… nel caso, non è mia intenzione somministrarvelo: la mia vuole solo essere una riflessione.
MisterLoFi: Io non sono neppure contrario alle mountain bike (ne ho una, non l’ho mai usata propriamente in montagna e un giorno mi piacerebbe farlo): storicamente, molte mulattiere sono nate per il trasporto di carriaggi, anche pesanti; non credo che le bici siano così devastanti come lo è il motocross. Certo, alcune declinazioni estreme trial/mountain bike (come quella che abbiamo visto al Banff) mi lasciano prima sbalordito e poi perplesso, ma non credo potrà mai essere un fenomeno di massa… A lasciarmi interdetto sono sempre i mega-eventi, quelli che bloccano intere vallate; ci sono cose peggiori, per carità: l’eliski, gli impianti di risalita ad alta quota, gli spazzaneve sui ghiacciai… Bisogna anche stare attenti, però, a non lasciarsi ipnotizzare dai facili “purismi”: queste competizioni sono mode a medio sfruttamento commerciale che possono anche passare molto rapidamente, e in questa congiuntura possono essere dei palliativi per le comunità montane, o persino occasione di manutenzione di sentieri e sottobosco… mi limito a fare ipotesi, non ho abbastanza dati in merito per affermarlo in modo netto. Di sicuro sono pronto a stendermi per impedire l’atterraggio dell’elicottero dell’eliski o per impedire il passaggio di motorette scoreggianti; di sicuro non mi metterò di traverso sul sentiero per impedire una manifestazione di trail running, ecco: probabilmente mi limiterò a lanciare un “Negoddìo!” in più. Né credo sia il caso di tematizzare l’argomento sul blog di Alpinismo Molotov – a meno di farne un meta post trasversale come questo. Trovo, infatti, molto ragionevole la posizione “libertaria” di VecioBaeordo, senza però lasciare – almeno inter nos – al mero “de gustibus” la questione: so che la corsa in montagna esiste da parecchi anni; posso intuire che sia nata da chi, appassionato al contempo di montagna e di corsa, ha pensato di creare un felice connubio tra le proprie passioni. È innegabile, però, che negli ultimi anni sia diventata qualcos’altro, investita da un fenomeno che ha coinvolto tutti i campi dell’outdoor – compresi lo scialpinismo/free-style e lo stesso mountaineering. Ma come da escursionista/alpinista devo fare i conti con il fenomeno di “exploitation” della montagna, così credo non si possa parlare di corsa in montagna senza fare i conti con la realtà dei mega ultra-trail. Quello che ho notato con perplessità è l’assottigliarsi del margine dell’amatorialità: chi inizia è subito proiettato verso l’alta prestazione e invitato a coltivare un’ossessione per il proprio limite. Si corre in montagna perché è anche bello l’ambiente selvaggio, indubbiamente, ma si corre in montagna perché i dislivelli degli ultra-trail e i sentieri accidentati richiedono una prestazione eccezionale, impossibile da riprodurre in una semplice corsa in collina… Ecco: tra i praticanti di trail-running, quanti lo praticano per la bellezza di correre in ambiente e quanti per un’egotistica ossessione per i propri limiti e obiettivi messi alla prova da percorsi estremi? Mi affascina l’idea di riflettere su questi elementi in una sezione di “corsa in montagna Molotov” (magari coordinata da Roberto) come modo antagonista di correre in montagna.
Roberto Gastaldo: La sezione di “corsa in montagna Molotov” potrebbe essere una buona idea, ma dovrei trovare il tempo di allenarmi – quindi mi sa che se ne riparlerà almeno tra 4, 5 anni! Sulla mountain bike, anch’io quando abitavo in valle la usavo, principalmente su strade sterrate e pochi sentieri, e sono d’accordo che – a meno di eccessi o aberrazioni (come il downhill dopo salita in seggiovia) – non sia da censurare.
MisterLoFi: Per fare definitivamente pace, chiudo con una riflessione: in fin dei conti la corsa in montagna l’hanno inventata… le staffette partigiane!
Wu Ming 1: Ho una proposta, sentite: questa discussione è bellissima. E secondo me sarebbe utile per molte persone, e bello per il blog e per Alpinismo Molotov riportarla in pubblico, praticamente pari pari.
Non ho assolutamente tempo di farlo io, ma se qualcuno montasse tutto il botta e risposta collettivo, e poi lo rileggessimo per limarlo un poco, ne verrebbe fuori un gran bel post, un gesto di trasparenza, e la possibilità di discuterne insieme ad altri nei commenti.
Diserzione: Concordo con Wu Ming 1 sulla bellezza di questa discussione. Apprezzo le diverse posizioni espresse anche in contrasto tra loro ma non ne ho ancora una mia precisa sulla corsa in montagna.
Però qui non si è parlato solo di quella, o meglio, la corsa in montagna è servita anche come occasione per esprimere le nostre disposizioni verso l’alpinismo molotov o meglio verso il suo uso nel nostro discorso (molto bello l’intervento di Mariano a riguardo).
L’altro giorno ho scambiato qualche parola sulle ferrate con il Vecio (sicuramente argomento da riprendere) e su una cosa eravamo d’accordo: non ci vanno bene le regole assolute calate sulla realtà, per regolarla e nemmeno per interpretarla. (Però detta così sembra una supercazzola iper-relativistica che non dice niente: vorrei saperla spiegare meglio). Siccome non ho molto da dire sulla corsa in montagna mi concedo un off-topic per parlare di un altro alpinismo non-molotov verso cui non ho pregiudiziali, così come ha fatto per la corsa RobGast a inizio thread. Mi riferisco all'”andar da soli in montagna”. Sicuramente non fa parte della pratica “alpinismo molotov” (“non contempla la solitaria”) per come l’abbiamo costituita. Io però di per sé non ci vedo niente di sbagliato, ed è una cosa che da quando ho iniziato ad andare in montagna faccio spesso, anzi ogni volta che posso, e a cui non penso che rinuncerò mai, gambe permettendo. Allo stesso tempo, non mi sogno di farne récit individuali e considerarli “molotov” nel senso che intendiamo noi.
Concludendo vorrei aggiungere qualche parola nella direzione che ha indicato Mariano che mi sembra molto giusta. In questa fase ancora “costituente” della nostra pratica è sacrosanto che tra di noi ne pensiamo e discutiamo e chiariamo i modi. Ma questo *di per sé* non dovrebbe secondo me diventare immediatamente un pulpito dal quale giudichiamo o peggio condanniamo pezzi del mondo (della montagna) in generale. Il nostro punto di vista, sempre plurale, viene fuori da molto altro, dalle storie che abbiamo letto e che vivremo e racconteremo (abbiamo già iniziato anche questo), dalle lotte che faremo e attraverseremo, e anche dalla nostra pratica, certamente, ma per ciò che essa saprà costruire e decostruire… Come dice MisterLoFi, un conto è andare di corsa in montagna, o andarci da soli, o in bici: tutte pratiche molto lontane dall’alpinismo molotov. L’eliski è tutto un altro paio di pale rotanti, da giudicare e a cui opporsi per validi motivi intrinseci e non per la semplice distanza dalla nostra pratica.
VecioBaeordo: Riguardo alla bici: le staffette partigiane ne facevano uso intensivo, e Abo nella storia dell’APE racconta che organizzavano qualcosa tipo gite cicloalpinistiche. Inoltre penso che andare a piedi sulle sterrate sia una gran rottura di Maroni, andarci in macchina è sleale, e la bici sarebbe la soluzione perfetta. Apro un inciso sulle sterrate: li considero una prepotenza degli enti che “facendo” strade sterrate cancellano la viabilità pedonale senza preoccuparsi di ripristinarla o, peggio, mettendo le tacche biancorosse sulle sterrate appena tracciate. Uso “fare” anziché “progettare” perché in troppe occasioni, anche e proprio in valsusa, ho visto stradacce inutili buttate giù talmente male e con tanta devastazione di terreno, da ritenere altamente inverosimile l’esistenza di un progetto a monte. Sembrano piuttosto lasciate al ghiribizzo del guidatore di ruspa dopo avergli dato punto di partenza e di arrivo.
Tornando alle bici in montagna, come sempre, conta il modo: il downhill è distruttivo, l’arroganza di taluni è caratteristica delle persone e non del mezzo (gli stronzi puzzano uguale anche quando vanno a piedi), ma se un giorno nascesse qualcosa tipo Cicloalpinismo Molotov non lo vedrei come un problema :-)
Yamunin: Sulla bicicletta: Credo che sia una delle invenzioni più belle mai fatte.
Amo andare in bicicletta ma non ho una mountain bike e non sono mai andato in giro su sentieri o sterrate o…
Ho percorso un po’ di sentieri della collina e del parco della mandria (da solo, gaglioffi, e anche se è bello camminare da soli con i propri pensieri farlo *sempre* da soli è – per me – noioso) e molti sentieri sono molto rovinati proprio dalle ruote delle bici. Ho incontrato diversi bikers bardati come soldati dell’esercito dei cloni e alcuni di loro li avrei serenamente mandati a fare un volo fuori pista. Il modo che hanno alcuni di percorrere i sentieri è predatorio. È da sfruttatori. Esagero?
Roberto Gastaldo: D’accordissimo con tutti e due. Ad esempio sul crinale tra Valsusa e val Chisone c’è una vecchia strada militare che fa una trentina di km di cresta (dal colle delle finestre al Sestriere), per un percorso del genere la mountain bike è ideale. In stagioni in cui non passino troppe auto.
Stefano: No direi di no, non esageri.
Anch’io nei mie giri in bici in montagna su strade sterrate e talvolta asfaltate e anche su qualche sentiero, laddove è permesso e dove non lo è spingendola, ho trovato ciclisti tutina che davvero sembra predare e sfruttare l’ambiente…
Però direi che molto più spesso più che predatori li trovo drammaticamente schiavi di una moda imperante in montagna: la prestazioni sportiva in assoluto.
La montagna per loro è solo un accessorio: serve solo perché aumenta la difficoltà. 1000 metri verticali li trovi solo in montagna ma la prestazione la vivi con lo stesso spirito di fare le gara in salita sulle scale dell’Empire State Building.
Fabio: Anch’io non ho niente contro l’uso della mountain bike. Il problema, come dice Lorenzo, sono i mega eventi. C’è da dire però (come ha notato Yamunin) che su alcuni terreni l’uso delle biciclette può compromettere il fondo del sentiero. Mi pare evidente che come per la corsa non ci infastidisce la pratica in sé, ma l’approccio di alcuni (spesso molti).
Diserzione: No, Yamunin, per me non esageri affatto! Mi ricordo che ne abbiamo parlato scendendo dal Rocciamelone. Anche chi va a piedi può esserlo. In generale mi pare che stia cominciando a emergere un discorso dai nostri interventi: nessuna pratica in sé è immune dall’essere devastatrice e “predatoria” del territorio; qualcuna però lo è sempre o quasi sempre.
vhreccia
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Un altro bel post, letto con piacere: sembra sempre di stare con voi intorno al tavolino con un bicchiere di rosso in una mano e col pollice dell’altra a tener ferma una salsiccia appena arrostita su una fetta di pane fresco. La domanda che vi siete posti e ci ponete non è poi di così poco conto, nè di facile risposta, specie per chi, come me, le montagne le ha sempre e solo viste di lontano. E allora ho pensato di aiutarmi ripescando il trattatello conservato nella stanza adiacente a questa, quella di Futbologia; cito testualmente: “Come abbiamo visto la prima caratteristica è il conflitto. De Sofris specifica che non esiste un calcio molotov oggettivo: «oggettiva è solo la lotta di classe». Il calcio molotov invece varia di partita in partita. La squadra che in un dato contesto è molotov, può essere avversaria di una compagine molotov nella partita successiva, finendo per divenire in quel caso la «squadra imperialista», o ancora peggio una «squadra di bottegai»”. Dunque, forzando un po’ il parallelo, correre in montagna è molotov? Può esserlo, se come avete riportato quella competizione è dedicata alla storia delle staffette partigiane, e magari tutto intorno c’è un’intera giornata dedicata all’approfondimento del tema. Di certo non è molotov se, anche se corsa dalle stesse persone sullo stesso tracciato, è sponsorizzata e pompata dalla Red Bull per cercare di battere il record del mondo di sfruculiamento di uallera ( per dirla con il Mentalista, maestro di calcio jihad). Detto questo, anch’io, dedito ormai da anni al divaning estremo, credo che camminare, più che correre, sia la velocità giusta. Sempre.
marcelo.zariski
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Ciao, in effetti un post lungo, ma letto con piacere con la sensazione di partecipare a una chiacchierata.
Per quanto mi riguarda sono affascinato dall’idea di Alpinismo Molotov: il manifesto riesce a esprimere tante cose che ho sempre sentito e pensato andando in montagna. Purtroppo per motivi geografici sono un po’ isolato, per motivi lavorativi ho sempre meno tempo per godermi le montagne, ma lancio l’idea di una cellula pirenaica (aka Pireneismo Molotov) sperando un giorno di incrociare altri viandanti Molotov in queste montagne. Proverò a esportare l’idea condividendola con alcuni compagni di passeggiate.
Per quanto riguarda la discussione su “essere Molotov” in montagna mi concentrerei sull’atteggiamento piuttosto che sul mezzo (bici, corsa, camminata). Ovviamente i mezzi motorizzati sono incompatibili con un atteggiamento Molotov.
Il post mi ha infatti fatto pensare a una discussione con il fratello di mia moglie (che non perde occasione per scarpinare nelle Alpi) a proposito del sistema a cannuccia da mettere nello zaino per bere mentre si cammina. Il ragazzo, che va in montagna per camminare e non per correre, è entusiasta del poter dissetarsi senza “perder tempo fermandosi a prendere la borraccia nello zaino”. Ecco il punto della questione: dal mio punto di vista, fermarsi fa parte del cammino e la passeggiata non è un semplice tragitto teleguidato dal punto A al punto B da compiere in un tempo presfissato. Nella mia testa, ne ho dedotto che il sistema a cannuccia non è un oggetto da alpinista Molotov…. e pochi giorni dopo ho letto il vostro post…
Mr Mill
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Riconsidererei la cannuccia che fuoriesce direttamente dallo zaino per bere se e solo facilitasse non tanto il ritmo del passo, ma quello delle parole e delle conversazioni; insomma del “passo oratorio” la parte oratoria ;-)
LoFi
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ehm, io uso pure la camel bag (aka sistema a cannuccia), peraltro accessorio ispiratormi da un amico che pratica il trail running… e ora ci sono particolarmente affezionato anche perché ci sono voluti anni di uso per far andare via quel gusto di plasticazza che aveva all’inizio. Ci metto pure sali minerali peggio degli sciikimici… però ecco non mi concentrerei troppo sui dettagli che sennò si finisce per essere come una canzone di Gaber, tipo che gli scarponi se puzzano sono molotov, se profumati con il deodorante per scarpe no :-D
marcelo.zariski
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Niente meglio che una chiacchierata per sfatare i propri pregiudizi ;-)
In ogni caso, come ho cercato di dire nel mio commento, più che l’oggetto in sé – come per esempio la camel bag – credo che sia l’atteggiamento con cui lo si usa, cosi’ come l’atteggiamento con cui si corre o pedala in montagna che ci rende Molotov. Ovviamente poi nella mia testa ragiono un po’ per categorie autoesclusive “Molotov” e “non Molotov”… non ho ancora implementato la logica fuzzy nel mio cervello 1.0 ;-)
Redazione_am
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Segnaliamo un articolo – scritto da Saverio Fattori, già autore di Acido Lattico – sugli eventi di corsa ultra runner:
Cont(r)atto con la natura
robgast69
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Non sono molto daccordo con l’articolo, secondo me generalizza troppo.
E’ vero che purtroppo da un sacco di anni la corsa in montagna è considerata tra gli ‘sport no limits’, e quindi assoggettata alle stesse logiche della produzione dei video promozionali: l’importante è poter estrarre un bel video, con la clausola che non permetta nemmeno di intuire il livello di difficoltà di quanto compiuto. In questo contesto gli slogan patacca o le frasi che simulano di mischiare filosofia e tecnica di allenamento circolano e proliferano facilmente. Il tor de Geants poi è creato per cercare a tutti i costi di essere sensazionale, e quindi è normale che raccolga la merda e le critiche alla merda, però pensando ad altre gare dai 100km in su mi sembra sia decisamente più diffusa un’impostazione basata sulla gestione di un degrado controllato delle prestazioni, che mi sembra l’esatto contrario del passaggio di Evola citata nell’articolo. Poi magari questo approccio su durate così lunghe non è proponibile, però mi sembra che allargare il discorso da una gara a tutti gli ultra-trail sia quantomeno azzardato (e poi da che misura si parla di ultra-trail? Oltre i 100 km? Oltre le 24 ore? Quando non si può finire la gara senza almeno una pausa per dormire?).
Mr Mill
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Tecnicamente l’ultra-trail rientra, almeno da quanto leggo in rete, nella categoria più generica di ultramarathon, che comprende tutte le competizioni podistiche su una distanza superiore a quelle di una tradizionale maratona.
Casualmente oggi leggo sul Giornale di Brescia un articolo su “La Grande Corsa Bianca”, un trail invernale di 160 km e seimila metri di dislivello che si tiene tra Adamello e Stelvio, quest’anno alla III edizione. Mi ha colpito molto come ne scrive l’autore dell’articolo, perché riprende alcuni cliché che segnalava Saverio Fattori in Cont(r)atto con la natura; non aggiunge molto ma qualcosa vorrà pur dire se quando si raccontano questa tipologia di competizione tornano le stesse immagini ad effetto. Qualche esempio: «Guai a definire l’evento più atteso dall’inverno una gara. “La Grande Corsa Bianca” è infatti un viaggio, una grande avventura per mettere alla prova il proprio io in un ambiente ostile, quale può essere la montagna in pieno inverno.»
robgast69
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Se però prendiamo per buona questa distinzione mettiamo assieme gare da 4 ore e gare da una settimana, il che non ha molto significato.
Secondo me siamo più che altro di fronte a un ennesimo caso di giornalista che deve riempire la pagina senza la minima conoscenza di ciò di cui scrive, e quindi si affida alle frasi ad effetto più stereotipate e stupide, da immaginario ‘no limits’, come dicevo nel commento precedente.