Il 21 febbraio scorso, alla manifestazione No Tav di Torino, c’era una nutrita delegazione di alpinisti molotov. Alcuni di loro (2 ruote di resistenza, Alberto Di Monte, Corrado Gioannini, Filippo Sottile, Luigi Suppo, Roberto Gastaldo, Simone Scaffidi Lallaro) hanno scritto le loro sensazioni e i loro ricordi. Ne è venuto fuori questo anomalo rècit d’ascension, anzi de descente. Le foto sono di Luca Perino.
Partenza: piazza Statuto, Torino, 255 mslm
Arrivo: piazza Castello, Torino, 252 mslm
Distanza: 1,4 km
Dislivello: – 3 metri
Tempo di percorrenza: 2 ore circa
1.
RG: Si torna a camminare, con le solite bandiere. La manifestazione di fine inverno rischia di diventare un’abitudine, anche se dall’anno scorso è cambiata la location, Torino anziché la valle, e in parte sono cambiati anche gli obiettivi. Sì, perché fermare il progetto TAV è ormai cosa fatta, i suoi faccendieri si stanno già dividendo tra chi si affanna a scavare gli ultimi denari fino alla sirena finale, e chi si discosta e spolvera prima, cercando di ripulire una facciata da rigiocarsi altrove. Ora quel che dobbiamo fare noi è non lasciare soli quelli che sono rimasti a tiro del rabbioso fuoco di frustrazione dei guardiani della sacra Grande Opera, ed è per questo che siamo qui.
FS: Saremo in dieci, la sezione occidentale di Alpinismo Molotov quasi al completo, potremmo addirittura farci lo striscione. Nella mailing list gira l’idea di raccontare del corteo come fosse una delle nostre camminate in quota. Sarebbe un récit de descente, sono meno tre metri di dislivello fra partenza e arrivo secondo i rilievi satellitari. Ma la domanda che ci facciamo a più riprese è: ha senso?
La mia compagna e io ci prepariamo per uscire di casa. Mantella, k-way, un cambio completo per la piccola, un thermos di tè, una bottiglia d’acqua, qualcosa da sgranocchiare. Ne viene fuori uno zaino da montagna pieno. Lo guardo e mi chiedo: questo è alpinismo molotov?
Quando arriviamo al concentramento scruto le calzature e faccio una statistica: due persone su cinque hanno gli scarponi da montagna. Prima lo zaino, ora gli scarponi, è sufficiente a giustificare il desiderio di dire la nostra su questa giornata?
2RR: La prima sortita di #2RR con Alpinismo Molotov avviene “in casa”, a Turin: pazienza! Avremmo preferito una ben più salutare camminata nel cuore della Valle ribelle, ma ci sembra giusto fare “gli onori di casa”. Chi non è mai andato a una manifestazione No Tav non sa cosa si perde. Quando sono in Valle si trasformano in feste, e sono forse la più alta manifestazione della Politica che esista oggi in Italia (forse, non siamo mai stati alla manifestazioni No Muos): Politica con la P maiuscola, nel senso di partecipazione popolare, “il problema degli altri è uguale al mio, sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è politica” diceva Don Milani, “si parte e si torna insieme” dice il movimento No Tav.
LS: Difficile sfuggire alla tentazione di scrivere banalità, tanto più dopo il confronto interno in merito alla molotovità (lo so, non si può proprio leggere, ma lo scrivo lo stesso) della partecipazione di Alpinismo Molotov. Io temo di dover confessare la mia incapacità di legare razionalmente Alpinismo Molotov e la “celebrazione della partecipazione”. La condivisione delle tematiche No Tav non è in discussione da parte di nessuno di noi, credo, tanto è vero che costituisce parte integrante del manifesto. E già questo giustifica la partecipazione, che nel mio caso particolare, è anche un modo di raccordare volti e nomi. Non è alpinismo? Probabilmente no, ma se questa fosse una conditio sine qua non, dovrei dimettermi seduta stante da Alpinismo Molotov, dal momento che io non sono un alpinista, bensì un escursionista, e nemmeno dei più prestanti. Non è molotov? Non so rispondere, non ricordo se negli scritti che sono girati compare una definizione tecnica di “molotov”.
2RR: A Torino le manifestazioni sono sporche. Foriere di agguati vigliacchi. Tre anni fa un imponente spiegamento di polizia non ha “saputo” fermare quattro scritte sui muri, che solerti velinari hanno gabellato per “oltraggi alla memoria di Norberto Bobbio” e ancora più solerti politicanti si sono affrettati a sottoscrivere. Torino è la città che ha ridato una carica dirigenziale a Spartaco Mortola, il Mr. Molotov della Diaz. Che tenne fede al suo curriculum mandando le divise a innaffiare di lacrimogeni i manifestanti che volevano tornare a Milano. Un karma negativo sembra aleggiare sulla linea Milano-Torino, come vedremo.
FS: Assistiamo allo smantellamento di Torino. Via le scenografie e i paraventi, si sbaracca e si svende quello che non serve. Sono mesi che il presidente della regione Chiamparino, il vate delle montagne olimpiche, dichiara che va tutto bene, ma bisogna sacrificarsi. Non si può più pretendere di avere i servizi nel raggio di 30 chilometri da casa e in tema di sanità bisogna riqualificare, ma risparmiando e giù la scure anche sulla cultura. La buona scuola invece fa da sola, niente o mazze o bulldozer, soffitti e intonaci crollano senza bisogno di aiuti ulteriori.
Il Tav costa 1600 euro al centimetro, 160 mila euro al metro, 160 milioni di euro al chilometro, 1,6 miliardi di euro ogni dieci chilometri. Ci vogliono venticinque chilometri di Tav per coprire il buco di bilancio che le Olimpiadi del 2006 hanno causato alla casse di Torino, ma sono sufficienti tre chilometri e mezzo a evitare il piano “riqualificazione e risparmio” per la sanità. Lo diciamo da qui, dalla capitale del gigantismo pubblicamente assistito, l’unica grande opera in cui crediamo è UGO.
LS: Tutto quello che posso dire è che, in mancanza di validi motivi, mi sarebbe dispiaciuto non esserci. Non è molto, mi rendo conto, ma è qualcosa. Insieme ai qualcosa dei compagni, farà un tutto. Nessuno si salva da solo.
FS: Ripasso mentalmente il pentalogo che ci tiene insieme e sì, in ogni punto trovo conferma. Per me vale la pena di raccontare di questa calata di valligiani che con passo oratorio invadono Torino.
Per attitudine e stile, prassi, sguardo sulla “montagna”, l’Alpinismo Molotov è ipso facto una pratica antifascista e No Tav.
2.
SLS: Odore di vacca e profilo di acciaieria a valle.
I tremila, la Becca di Nona e il Monte Emilius, sulla testa.
Un quattromila, il Grand Combin, alle nostre spalle.
Guardando verso sud-est il cielo è come sempre in discesa, raccolto nel decrescere progressivo delle cime, che sfocia nel Canavese. La strada, controllata a vista dalla Dora Baltea per il primo tratto, ci porterà prima ad Ivrea e poi a Torino. Oggi non proseguiamo fino a Bussoleno per costruire barricate di libri e neppure fino a Lione per condire i nostri sconcerti in una piazza blindata, coperta da una coltre invisibile di spray urticante.
L’idea di sfilare tutti insieme – vecchi e giovini – dietro lo striscione che inneggia alla solidarietà da una valle all’altra sfuma. I vecchi pure senza organizzazione ci sono, non che siano anarchici, quello no, ma ormai son rodati. Hanno nelle gambe le corse nei boschi di Venaus e nelle strade di Genova, non desistono e sanno contarsi. I giovini invece alla fine sono meno del previsto e si disperdono per il corteo.
I vecchi – che così vecchi poi non sono – scendono in macchina. I giovani in treno. Un treno a bassissima velocità, due cambi e due ore e passa per fare cento chilometri da Aosta a Torino. Un viaggio verso l’infinito e oltre, costellato di voci meccaniche che cadono dall’alto ripetendo ossessivamente l’importo della multa per chi non paga il biglietto, affiancate da altre voci che diresti umane ma sono il frutto della mutazione genetica di certi controllori, smaniosi di rivendicare il loro grado di pubblici ufficiali e il loro amor d’azienda-patria. E se perdi la coincidenza a Chivasso o a Ivrea le ore per arrivare a Torino diventano quattro e mezza, proiettando il capoluogo piemontese a una distanza siderale.
3.
2RR: Come presentarsi, noi che siamo più usi alle pedalate che alle scarpinate? Il clima, paradossalmente, ci viene in aiuto: la pioggia battente ci permette di sfoggiare l’equipaggiamento antipioggia e addirittura di portare in piazza i ferri del mestiere, fisarmonica rossa 80 bassi celata sotto l’impermeabile (“Gobba? Quale gobba?”). A Torino la parte musicante di #2RR non suona più volentieri. Per lo più sono locali che offrono meno di quanto si raccolga suonando in strada. E anche in strada si ha spesso la sgradevole sensazione di fare da colonna sonora allo shopping. Oddio, più che altro window shopping, ma è vietato parlare di crisi!
CG: Ci avviciniamo a piazza Statuto lungo via Garibaldi. Sono le 14 e la via pedonale non è ancora diventata la bolgia in cui si trasforma abitualmente di sabato pomeriggio. La maggior parte delle persone che incrociamo per la via cammina dei passi corti e irregolari, con frequenti cambi di direzione, lievi accelerazioni seguite da soste altrettanto brevi. Le vetrine ed i negozi sono i punti nodali di questa danza, a dire il vero poco aggraziata. Un’andatura che sembra essere votata alla celebrazione del consumismo. Un’andatura del tutto diversa da quella di chi va per sentieri di montagna. Qui fioriscono le borsette luccicanti, i tacchi dorati, i make-up variopinti, le sciarpe firmate; i piedi sono calzati da scarpe apparentemente intonse, come appena prese dallo scaffale del negozio. Una volta sotto i portici della piazza la transizione è netta: prima incrociamo un gruppetto di muntagnin – decisamente poco alla moda – che scherzano ad alta voce, subito dopo il muro compatto ma permeabile dei manifestanti radunati in attesa. La differenza rispetto alla frivolezza incontrata lungo la via la si percepisce non tanto dall’aspetto, quanto piuttosto dalla sensazione di stabilità che emanano le persone.
LS: È lui o non è lui? Come cazzo faccio ad avvicinarmi a un manifestante e chiedergli “scusa, sei un alpinista molotov?”. E se poi è un celerino in borghese che mi sbatte dentro per vilipendio alla divisa, anche se è in borghese? Il mio percorso di avvicinamento non è stato il massimo, a dire il vero. A cominciare dal giorno precedente. Erano una trentina d’anni che non partecipavo a una manifestazione (vergognoso, ne convengo), fatta eccezione per un’incursione a un raduno di legaioli di qualche decennio fa, e quindi ho pianificato la manifestazione in preda all’ansia più profonda… il documento devo portarlo, capitasse che mi fermano può servire; passamontagna in tasca in caso di lacrimogeni, tanto ho la scusa che è pieno inverno (scusa?); ombrello per fare da scudo alle manganellate, e poi piove… insomma, ci sono andato proprio sereno. Appuntamento al monumento caduti del Fréjus, ci arrivo da dietro per valutare le vie di fuga dalla piazza e la disposizione dei blindati. Sotto al monumento non c’è nessuno; o sono il primo, o la pioggia ha convinto i compagni a ripiegare sotto i portici, assieme a qualche migliaio di manifestanti che si sono dati appuntamento al monumento ai caduti del Fréjus. Peccato che io non conosca di vista più di tre alpinisti molotov… e quindi, è lui o non è lui? Grazie al cielo, dopo poco si materializza Mariano, e posso finalmente salutare anche il “lui”, alias il Vecio :-), che avevo incontrato al Laboratoire.
RG: Anche oggi il cielo è grigio, come d’ordinanza per Torino; io, Gemma ed Emiliano, nel suo passeggino, usciamo di casa all’una e mezza e la pioggia ha già iniziato a cadere, in anticipo sulle previsioni. Nell’androne del palazzo litighiamo per minuti con la capottina in plastica del passeggino, che da bravi sprovveduti usiamo oggi per la prima volta; alla fine l’abbiamo vinta, ma Emiliano non sembra apprezzare di essere stato chiuso in una specie di bolla. Per fortuna ha così tanto sonno che bastano cento metri di strada per addormentarlo.
Cinque minuti a piedi, due ascensori per scendere in metropolitana, tre fermate, altri due ascensori per risalire e usciamo in piazza 18 dicembre dove già si vedono i colori No Tav. Percorriamo corso San Martino sotto portici via via più affollati di biancorosso ed arriviamo al luogo del rendez-vous, in piazza Statuto.
A colpi di smartofono ci ritroviamo e inizia l’attesa della partenza, scomoda perché la pioggia ci comprime tutti verso i portici, e combinandosi con un leggero vento rende il freddo fastidioso. Parlo un po’ con i tanti amici, di Alpinismo Molotov e non, che sono nella piazza; tanti spezzoni di discorsi, che in queste circostanze non riescono mai a completarsi, quelli interessanti li si continuerà poi, altrove. Dopo un po’ Emiliano si risveglia, e come ogni bimbo diventa subito punto di attrazione; addirittura un tale, vedendomi con lui in braccio, chiede di intervistarmi per il giornale CARC, io accetto e per una decina di minuti mi ritrovo ad ascoltare domande chilometriche di cui fatico a capire il senso, evidentemente dev’esserci qualche sottinteso, ovvio per lui e sconosciuto per me. Questo non detto, e le continue interruzioni dell’intervistatore, producono un risultato che non credo abbia molto senso.
SLS: Gli alpinisti molotov si sono riparati sotto il portico, al lato del monumento in ricordo dei morti ammazzati lavorando alla realizzazione del traforo ferroviario del Frejus, più di un secolo fa. Furono 48 i morti, una cifra contenuta – dicono – se comparata alle altre grandi opere dell’epoca. Con-tenuta perché tiene insieme, con il sangue e le membra sformate di operai e operaie, un buco nella montagna. Contenuta perché nella sua falsità si porta sulle spalle, senza cedimenti, una coperta di amianto lunga 150 anni a cui il progetto del Tav rinnova le maglie.
CG: Mentre raggiungiamo il punto di ritrovo coi compagni, mi colpisce ancora una volta l’eterogeneità dei partecipanti. Negli anni ho conosciuto uomini e donne appartenenti alle diverse anime del movimento, sono razionalmente cosciente di questa eterogeneità, eppure ogni volta che assisto ad un evento esteso come quello di oggi lo noto nuovamente, con una sorta di “stupore atteso”. Simile allo stupore dei bambini che riascoltano la stessa fiaba per la centesima volta. E mi viene da pensare che ogni vera resistenza non possa che essere così. Variegata e non monolitica. I movimenti di lotta che mostrano una sola anima, pur se compatta e cosciente, non hanno lo stesso respiro. Certo esistono esempi di lotte sacrosante e condivisibili portate avanti con lucidità da gruppi ristretti di persone accomunate dagli stessi principi. Però mi viene da chiedermi se l’ampiezza non sia una qualità chiave per leggere i fenomeni di resistenza che si estendono su scale temporali o spaziali maggiori. Come se si potesse delineare una qualche mappatura tra ampiezza quantitativa e ampiezza qualitativa. Tutte le occasioni di resistenza che mi vengono in mente, con la R maiuscola o meno, hanno coinvolto gruppi e figure molto differenti tra di loro. Persone con un sentire diverso anche su aspetti fondamentali della vita ma accomunate da una precisa presa di coscienza resistente. E tutte le resistenze sono fenomeni complessi, in cui non è semplice tracciare una storia lineare e senza sbavature. A margine del campo visivo si trovano necessariamente esasperazioni, errori, incomprensioni: un pattern naturale in qualsiasi realtà sufficientemente articolata. Quello che stupisce chi non abbia vissuto l’evoluzione del movimento No Tav negli anni è come queste anime così diverse tra loro abbiano tutte una comune lucidità e una comune determinazione. Cosa può accomunare ad esempio gruppi di tradizione anarchica e antagonista con altri di ispirazione cattolica parrocchiale? Forse solo la presa di coscienza del proprio ruolo politico di individui all’interno della società, l’appartenenza stessa a quella resistenza che finisce per costituire una delle componenti più caratterizzanti del proprio sé. Certo, com’è normale all’interno del movimento vi sono persone maggiormente in grado di approfondire l’analisi politica ed altre meno consapevoli, gli equilibri di forze e le relazioni tra le parti sono anch’esse articolate. Tuttavia ho l’impressione che questa eterogeneità di base, unita alla lucidità ed alla determinazione comuni, possa essere una delle risorse fondamentali che hanno consentito al movimento No Tav di sopravvivere e di diventare così forte e resiliente.
4.
2RR: Solo dalla via si possono ammirare i palazzi ottocenteschi di via Cernaia e via Pietro Micca. La pioggia non è abbastanza da “lavare via tutta questa drugia” come direbbe Martin Scorsese, ma offre riverberi brillanti su selciato e tetti. Gli scorci sul Mastio della Cittadella, sulla Fontana degli Angeli in piazza Solferino e infine su piazza Castello danno pane per i denti dei bravi fotografi.
RG: Si torna a camminare, con le solite bandiere e la certezza che anche oggi non resteranno asciutte. Come all’8 dicembre, o come quando riaccompagnammo Luca Abbà alle reti in Clarea, e rimanemmo increduli nel vedere che la polizia per scacciarci mandava gli idranti. Immaginatevi quanto potevamo temerli non avendo asciutte neppure più le mutande.
LS: Riesco finalmente ad attribuire un volto a molti dei nomi che scrivono in mailing-list, mano a mano che arrivano. C’è chi è venuto con la famiglia, il che da un lato mi tranquillizza, dall’altro il pensiero di tutte le mie paranoie in fatto di sicurezza mi sbriciola l’autostima. Anche se i blindati non distano più di 50 metri da noi. Gli alpinisti molotov sono persone apparentemente come le altre, in realtà nascondono autentici tesori sotto lo strato di abbigliamento esterno, nel giro di pochi minuti vedo comparire una fisarmonica e una bimba. Nello stesso giro di altrettanti pochi minuti mi rendo conto che il problema più critico della giornata sarà il freddo umido. Quando un compagno aveva scritto in ML “attrezzarsi come per andare ai 3000”, ho fatto finta di niente e sono uscito con i calzini di cotone. Dopo cinquanta minuti ho perso la sensibilità delle estremità inferiori. Mezz’ora dopo nelle scarpe avevo due moncherini ghiacciati, con i quali mi sono trascinato fino a piazza Castello. Da qui il congedo frettoloso, ma soprattutto freddoloso.
SLS: Piove. Fa freddo. Almeno due degli alpinisti molotov sono visibilmente acciaccati, d’un tratto Mariano scompare, ma nessuno si preoccupa più di tanto, è il suo mestiere. E infatti poi riappare. Ieri c’era il sole, passeggiata a Porta Palazzo. Oggi piove e la manifestazione la percepisco come molto rapida, troppo rapida, sarà il freddo. Stasera invece verrà giù una bufera e ci tireremo le palle di neve da un capo all’altro della strada in una piazza Santa Giulia deserta, scandita solo dai rintocchi del calcio balilla. Domani ci sveglieremo col sole e senza neppure più un’ombra di bianco. Solo sabato il giorno della manifestazione c’è stato un tempo da lupi.
Concludiamo che «Dio vuole il Tav». Ma subito rinsaviamo e ci ricordiamo che Dio vorrà anche il Tav ma nessun bambino o bambina lo vorrà mai, perché a un treno senza possibilità di saltarci sopra o salutare i viaggiatori al finestrino continuerà a preferire un filo d’erba.
FS: È il 21 febbraio e piove. Non mi piace stare sotto la pioggia, non mi piace stare all’umido, non mi piace stare al freddo. Quando piove o fa freddo o fa umido, nel mio mondo ideale, si dovrebbe stare sotto il piumone o vicino alla stufa avvinghiati a un buon libro o a scambiarsi effusioni con le persone amate o a rivedere film come Stardust di Vaughn. Questo nella mia testa, ma le cose non sono mai andate così e da quando seguo attivamente il movimento No Tav vanno ancora peggio.
Quando piove o fa freddo e c’è un’iniziativa No Tav mi viene sempre in mente l’incipit di La giornata di uno scrutatore di Calvino.
C’era l’abitudine tra i sostenitori dell’opposizione (Amerigo Ormea era iscritto a un partito di sinistra) di considerare la pioggia il giorno delle elezioni come un buon segno. Era un modo di pensare che continuava dalle prime votazioni del dopoguerra, quando ancora si credeva che col cattivo tempo, molti elettori dei democristiani – persone poco interessate alla politica o vecchi inabili o abitanti in campagne dalle strade cattive – non avrebbero messo il naso fuor di casa. Ma Amerigo non si faceva di queste illusioni: era ormai il 1953, e con tante elezioni che c’erano state s’era visto che, pioggia o sole, l’organizzazione per far votare tutti funzionava sempre.
Amerigo Ormea non si fa più illusioni e io nemmeno. Se c’è tempo da lupi, in giro per le strade o nei boschi, per una manifestazione, una colletta o un presidio ci trovate solo No Tav.
A novembre scorso pioveva a catafottere, ma all‘inaugurazione del presidio Picapera, a Vaie, c’era un sacco di gente.
Mi ricordo una manifestazione a Susa, il 23 gennaio 2010 c’erano -2 gradi e quarantamila persone, il giorno dopo nei locali riscaldati del Lingotto, al convegno Sì Tav, erano davvero in quattro gatti. Quelli erano i giorni in cui con altri due amici della banlieue si andava a coprire il turno ai presidi contro le trivellazioni nell’orario più delicato, dalle 4 alle 7 del mattino. Calzamaglia, calzettoni di lana, scarponi, pantaloni imbottiti, maglione di lana di yak, giacca a vento, sciarpa, ci mancava solo il colbacco per sembrare Totò e Peppino a Milano.
Non sto a rivangare del freddo e dell’umido patito nelle notti in Clarea, o in quelle a Venaus coi piedi nella pauta, ma ci sono migliaia di persone che possono raccontarlo.
C’è chi dice che l’accostamento fra No Tav e partigiani è irriverente. Su un punto però è inoppugnabile: esattamente come ai ribelli della montagna, agli attivisti No Tav il freddo e le intemperie gli sono entrati nelle ossa. A qualcuno più di altri, non posso dimenticare un 8 dicembre in Clarea con Turi Vaccaro scalzo nella neve.
Majakovskij dice che la terra con cui hai diviso il freddo mai più potrai fare a meno di amarla. Chi può fermare, mi chiedo, una lotta di migliaia e migliaia di innamorati della terra?
SLS: La pioggia di sabato non la ricordiamo già più, mentre il motivetto che ha accompagnato il corteo, intonato dai bambini e dalle bambine su un trenino a bassa velocità, rimane colonna sonora di una moltitudine resistente in cordata: «Nella valle c’era un filo d’erba, treno di merda treno di merda!».
5.
LS: Il corteo l’ho percorso da cane sciolto, precedendo di qualche metro un gruppo che sgolava slogan con passione; del resto la dispersione mi pare inevitabile, quando non devi seguire uno striscione. Polizia presente in forze, ma non mi pare ci siano stati problemi. Camminando buttavo un occhio alle vie laterali, sono una vittima della sindrome dell’accerchiamento, ma ho visto solo un paio di blindati, per il resto c’erano volanti quando non vigili urbani. Davanti alla caserma Cernaia ho riesumato un pensiero personale; ho fatto tre anni di superiori avendo come compagno di classe il figlio di un colonnello di quella caserma, appena trasferito da Roma, sul finire degli anni ’78-’80. Ricordo suo padre che cazziava di brutto me e gli altri compagni fumatori, raccontandoci i dettagli delle autopsie con una dovizia di particolari ai confini dello splatter. È stato convincente, in effetti ho smesso, 28 anni dopo.
CG: Durante lo scorrere del corteo per le vie della città incontriamo qua e là degli amici, chi più chi meno coinvolto nella protesta No Tav. Sentiamo opinioni diverse in merito all’entità della partecipazione. Il corteo impegna tutta via Cernaia… e ancora non è finito! Sì ma è sfilacciato, secondo me la volta scorsa eravamo di più.
2RR: Sarebbe bello percorrere in lungo e in largo il serpentone, unirsi alla banda No Tav venuta dalla Valle, salutare i tweet che si sono fatti carne, ma è un’impresa impossibile: il serpentone è troppo esteso! Ogni metro un saluto, un incontro improvviso e piacevole, uno spunto da approfondire. Con buona pace dei velinari che scrivono idiozie su “quattromila irriducibili che non scaldano la città”.
FS: Mia figlia, poco meno di tre anni, ogni tanto mi chiede: quando andiamo alla festa No Tav? Una manifestazione No Tav è anche questo, festa, incontro, chiacchiere, ritrovarsi. La convivialità, l’amicizia, il piacere di stare insieme sono fattori determinanti per la longevità e il successo di questa lotta.
Anche Sara, Dave – l’amico della banlieue con cui ho fatto tanti cortei e tanti presidi – e io abbiamo tanti amici da salutare. E dopo gli alpinisti molotov risaliamo nel serpentone. Incontriamo, stringiamo le mani, scambiamo chiacchiere fino a raggiungere i compagni del Comitato No Tav Val Sangone e Collina Morenica, di cui siamo parte.
In serata, nella mailing list del comitato, arriva una segnalazione: la Busiarda, La Stampa, ci gratifica con una bella foto del nostro striscione e, forse per giustificare, i soli 4000 partecipanti stimati dalla questura, aggiunge una didascalia: la testa del corteo. Solo che davanti al comitato Val Sangone e Collina Morenica c’è tanta gente quanta ce n’è dietro, siamo esattamente al centro.
CG: Di lì a poco verremo a sapere che i treni che avrebbero dovuto portare i No Tav da Milano non sono stati fatti partire se non con grande ritardo. Ostruzionismo di Stato.
RG: Intanto sono quasi le tre, la pioggia aumenta e il bimbo inizia a dare segni di insofferenza, ma per fortuna ci si muove, anche se per noi il corteo durerà poco. Giusto il tempo di tornare in piazza XVIII dicembre e capiamo che è ora di andarcene, ma in fondo è da quando uscendo di casa abbiamo visto la pioggia che sappiamo che non avremo potuto fare tutto il percorso.
Cerchiamo di riprendere la metropolitana, ma un poco gentile funzionario GTT ci avverte che la stazione è chiusa, quindi facciamo ancora un pezzo di corteo, riparandoci sotto i portici di via Cernaia, e poi in corso Vinzaglio ci stacchiamo per cercare di raggiungere una stazione aperta. Ormai sono le tre e mezza, quindi per far fare merenda al caldo a Emiliano ci fermiamo in un bar a cui la manifestazione sta regalando decine di consumazioni da bagno. Dieci minuti e poi si riparte, per raggiungere la fermata ci vogliono altri dieci minuti a piedi, attraversando anche un plotone di poliziotti in tenuta antisommossa che si ripara sotto i portici. Qualcuno di loro ironizza sulla bandiera che indosso a mo’ di mantello, ma non c’è il clima di blindatura di maggio dell’anno scorso, quando veniva consentito di lasciare il corteo solo a chi potesse, documenti alla mano, dimostrare una residenza in zona. L’impressione è che con la direzione della procura sia cambiata anche la linea, meno propensa al sensazionalismo (vedi il venir meno delle accuse di terrorismo) e più meticolosa nel cercare di fiaccare con il numero dei colpi più che con la loro forza.
Quando arriviamo alla metropolitana vedo su Twitter che la manifestazione ormai è in piazza Castello, ma nonostante questo il treno non ferma nelle stazioni di Porta Susa e 18 dicembre “per motivi di ordine pubblico”, come annuncia l’altoparlante. In questo nulla è cambiato dall’anno scorso, c’è la stessa volontà di creare disagi ai passeggeri ignari (spesso volutamente ignari) per aizzarli contro il nemico No Tav. In metropolitana leggo qualche tweet, parlano di oltre 10.000 persone, io ho visto troppo poco per farmene un’idea, ma comunque sembra un buon risultato, in una giornata climaticamente ostile, e con i compagni in arrivo da Milano bloccati su treni che Trenitalia fa intenzionalmente avanzare a rilento, sia per limitare la partecipazione che, di nuovo, per indispettire gli altri passeggeri. Sempre da Twitter apprenderò che i compagni arriveranno a Porta Nuova alle 18, quando ormai io sono a casa da più di un’ora.
ADM: Sabato 21 centocinquanta No Tav hanno manifestato per le vie di Torino. Non è un refuso. Parliamo del corteo delle 18, quello del carro bestiame partito da Milano (con appuntamento h10!) che ha raggiunto piazza Castello a Torino sotto la stessa pioggia che aveva accolto nel pomeriggio le migliaia di partecipanti alla marcia popolare. Lo spezzone “noexpo” è stato oggetto di una sistematica operazione di provocazione, rallentamento, psicodrammi da trasferta alle stazioni di Rho e Novara, che ci hanno impedito di partecipare alla manifestazione pomeridiana, ma alle 19 siamo usciti in ogni caso in corteo spontaneo dalla stazione di Porta Nuova per raggiungere la Cavallerizza accompagnati da una delegazione del Movimento.
Non è tempo di ripercorrere le tappe di una giornata descritta in dettaglio da diversi report (qui ne trovate uno). Qualche riga solo per segnalare che, per chi si batte contro il modello di grandi opere e grandi eventi, saldare la lotta al TAV e quella alle nocività di Expo 2015 è un fatto di attitudine.
2RdR: Ci sovviene una chiusa:
E io non ho visto niente
non ho visto un accidente
son venuto da Como per niente!
6.
RG: È sempre brutto abbandonare senza aver raggiunto la meta (e ancora di più quando si è in buona compagnia come ora), ma chiunque abbia fatto un po’ di escursioni in montagna sa che a volte è necessario, e che “A qualunque costo” è sempre la premessa di un prezzo eccessivo. Rientriamo a casa con una sensazione spiacevole: le incompiute, anche quando inevitabili, lasciano sempre l’amaro in bocca. Consola sapere che la cosa più importante siamo comunque riusciti a farla, portando il nostro sassolino alla diga che conterrà il disastro Tav.
FS: Dobbiamo raggiungere la metro a Porta Nuova, imbocchiamo via Roma e sembra quando Eddie Valiant esce dal tunnel ed entra a Cartoonia. Un altro mondo. Le vetrine, i vestiti, le scarpe, gli sguardi, il passo, il modo di gesticolare e parlare. Un’altra umanità. Ci capita tutte le volte che facciamo i cortei No Tav a Torino. È come se a venti metri dal corteo ci fosse una bolla che ingloba e attutisce rumori e clamori e permette alla tribù che la abita di atteggiarsi a piloti e modelle, manager e sciantose, ignari della catastrofe sociale in cui viviamo.
La ciliegina in metro: una voce che non fosse che è registrata direi che si fa sempre più scoglionata a ogni ripetizione, annuncia che le fermate Porta Susa e 18 dicembre sono inagibili per motivi di ordine pubblico. Un ragazzo davanti a me cristona e si attacca al telefono.
– Ci sono i No Tav che fanno casino devo scendere a quella dopo.
– Sempre colpa dei No Tav – dico, e c’è un tipo, uno che secondo me non era alla manifestazione, che però ci sorride.
CG: Nel linguaggio comune si usa spesso la metafora della montagna da scalare per riferirsi a compiti particolarmente gravosi o prostranti. Una metafora che si applica meravigliosamente alla protesta No Tav; scalare una montagna per difendere una montagna. Scalare una montagna di affarismo, di collusione e di indifferenza, una montagna la cui ascesa richiede un’enorme costanza ed una serie interminabile di passaggi “difficili”. Quello di oggi, qui in centro a Torino, è anch’esso un piccolo passo nella scalata della montagna; uno di quelli facili, a ricordare però che la direzione è univoca, che la marcia prosegue e che non ci passa nemmeno per la testa di desistere, voltarci e ridiscendere in quella pianura in cui si vuole allevare il gregge della condiscendenza.
Post Scriptum:
Mariano Tomatis: Sulla strada verso il corteo mi fermo a mangiare una piadina. Ho con me Alpinismo eroico di Emilio Comici. Lo apro a caso: cerco stimoli e mi imbatto in un dettaglio tecnico. Comici illustra un nodo alpinistico, introdotto dall’austriaco Karl Prusik. Dubito di averne bisogno in giornata, ma la pagina mi dice altro. La osservo in modo più distratto e mi coglie un dejà-vu. Ho già visto qualcosa del genere. Se mi allontanassi di un metro, a una certa distanza mi parrebbe un libro per illusionisti. La sera, tornato a casa, fotograferò la pagina accanto a quella di un manuale per prestigiatori.
È lo stesso Comici, qualche pagina dopo, a consolidare il bizzarro parallelo. Un paragrafo successivo si intitola “Il giudizio di «impossibile»”. Descrive quei passaggi in cui la parete si presenta così liscia e friabile da rendere del tutto impraticabile la salita. C’è un momento in cui l’intero gruppo si arrende di fronte all’impossibile: “E lui, e i compagni, muti, avviliti, guardano la parete inesorabile: la guardano quasi con ostilità.” Non mi stupirei se qualcuno mormorasse: “Ci vorrebbe una magia…”
“Poi qualcuno si azzarda a dire: «Non ti sembra, lassù, un po’ a destra di quella macchietta nera, di vedere una fessuretta?»” Le speranze si riaccendono. Il primo, “che nel frattempo si è un po’ riposato, si scuote e ritorna a sperare.”
Comici descrive una complicata operazione, seguita a distanza dai compagni con il respiro rotto. Finché la magia avviene: “I compagni hanno il cuore in tumulto, e vedono l’amico afferrarsi ad un appiglio invisibile. Vedono, il suo corpo arcuarsi tutto nello spazio, profilarsi contro il cielo… Poi, come per un miracolo, vedono che ha le gambe nel posto ove prima aveva le mani.”
Mi avvicino a piazza Statuto, da cui partirà il corteo, accorgendomi di non scorgere ancora quella fessuretta. Ma il Comici che ho nello zaino mi suggerisce cautela nell’esprimere il giudizio di «impossibile». Quando a voler proseguire la salita si è in tanti, l’appiglio non può nascondersi a lungo.
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