di Mr Mill
Il lavoro di Alberto Di Monte, confluito nella scrittura di Sentieri proletari. Storia dell’Associazione Proletari Escursionisti (Mursia, 2015), affonda le sue radici nel binomio ricordare/raccontare: combinazione inscindibile e necessaria per narrare un sodalizio i cui echi sono andati affievolendosi nel tempo, fino a renderla oggi poco meno che una storia perduta. Di Monte, per riuscire a saldare questo binomio, ha dovuto preliminarmente faticare non poco alla ricerca di tracce e testimonianze di questa esperienza associativa che, fin dalla sua nascita, si è caratterizzata per l’intransigenza nel perseguire i suoi obiettivi statutari, resi in sintesi nel motto «Sempre più in alto, per una nuova umanità».
Eppure l’Associazione Antialcoolica Escursionisti Proletari – poi solo APE – ebbe un ruolo importante nella definizione di una controcultura operaia militante in campo sportivo nell’epoca in cui, siamo nella seconda decade del Novecento, diveniva una priorità contrapporre alle istituzioni borghesi attive nell’organizzazione del tempo libero attraverso lo sport esperienze di gestione collettiva del tempo di libertà – per dirla marxianamente. Come scrive Di Monte, «lo sport poteva essere espressione di uno status elitario oppure strumento di emancipazione per qualificare il tempo libero degli operai e delle loro famiglie: due concezioni totalmente incompatibili» (p. 23). Sono gli anni in cui una radicata diffidenza verso le pratiche sportive da parte delle organizzazioni e dei partiti della sinistra viene messa in discussione, in cui inizia a trovare spazio su Avanti! e Avanguardia – due testate della stampa socialista – il dibattito sull’opportunità o meno d’avviare un proprio circuito di attività sportiva, anni in cui le pagine verdi di Sport e proletariato fanno concorrenza a quelle rosa della Gazzetta dello Sport. Nel nome dell’internazionalismo veniva rigettata la logica sciovinista della competizione sportiva che contrapponeva tra loro lavoratori chiamati a gareggiare sotto i rispettivi vessilli nazionali; non si trattava solamente di una ricollocazione di campo ideale ma anche materiale e d’ordine pratico: moderare i costi per la partecipazione alle attività sociali, in primis – per le associazioni alpinistiche ed escursionistiche – la quota associativa.
In questa fase un elemento centrale per le associazioni operaie – come è evidente da quell’Antialcoolica che compare fin dal nome dell’APE – è il contrasto alla diffusione dell’alcool fra i lavoratori, in particolare durante le giornate di riposo passate nelle osterie, «stigmatizzato come il peggiore dei mali del tempo, inevitabile fonte di dissoluzione morale prima che fisica» (p. 24). Già qualche anno prima, Jack London poneva la questione nel suo romanzo Martin Eden – pubblicato nel 1908-1909 negli Stati Uniti d’America – mostrando come il problema del dilagare dell’alcolismo nelle classi lavoratrici fosse un tema sentito non solo nel movimento operaio italiano. È interessante l’interpretazione di questo fenomeno che London enuncia attraverso il protagonista del suo romanzo, che viene collegato direttamente alle brutali condizioni di lavoro imposte agli operai:
Dimenticò, tornò a vivere e, vivendo, vide, con chiarezza allucinante, la bestialità dell’esistenza che conduceva – non per il bere, ma a causa del lavoro. L’alcol non era la causa, ma la conseguenza di quell’attività inumana, che sopravveniva inevitabilmente come la notte segue il giorno. Diventare un animale da soma non era la premessa per salire alle vette, gli sussurrò il whiskey, ed egli annuì in segno di approvazione.[1]
La lotta antialcolica fu già alla base delle costituzione dell’Unione Operaia Escursionisti Italiani, fondata a Monza nel 1911, la più strutturata fra le associazioni di stampo socialista nell’ambito alpinistico ed escursionistico da cui si distaccò poi il primo nucleo dell’APE (1919), denunciandone la compromissione dello spirito proletario. Negli anni successivi le sezioni dell’APE si moltiplicarono, per poi riunirsi in federazione, e le iniziative proposte si differenziarono: sì montagna ed escursionismo, ma anche scampagnate, castagnate e vendemmiate, in cui erano coinvolte le intere famiglie operaie e che frequentemente venivano realizzate spostandosi in gruppo con le biciclette.
In Sentieri Proletari la parabola che va dalla nascita al discioglimento forzato a seguito dell’approvazione delle Leggi fascistissime (1925-1926) dell’Ape viene narrata in questo quadro più generale, raggiungendo così il doppio risultato di una contestualizzazione della singola esperienza associativa e riconoscendo il giusto rilievo al ruolo primario dell’APE non solo nel campo specifico dell’alpinismo e dell’escursionismo, ma per tutto il movimento dello sport popolare in Italia. Ciò che emerge con chiarezza dal resoconto di Di Monte su questa prima fase della vita associativa dell’APE è la sua caratterizzazione come storia antifascista prima del Fascismo, partigiana prima della Resistenza.
Durante il Ventennio fascista lo sport divenne uno strumento fondamentale nell’irreggimentare le masse nonché strumento di propaganda. Tutte le associazioni sportive che non vennero sciolte di forza vennero, in pochi anni, fascistizzate – tra queste il CAI, che nel 1927 venne incluso nel CONI e nel 1930 rinominato da Club Alpino Italiano a Centro alpinistico italiano – oppure assorbite nell’Opera Nazionale Dopolavoro. Gli apeini non si arresero immediatamente a questa situazione, ma presto dovettero prendere atto dell’impossibilità di proseguire qualunque tipo di attività che non fosse svolta clandestinamente. Negli anni Trenta alcuni apeini iniziarono a offrire la loro esperienza e la loro conoscenza delle montagne alla rete clandestina antifascista nel nord Italia, soprattutto accompagnando persone in pericolo verso il confine o garantendo la possibilità che venissero tenute riunioni clandestine dei partiti di sinistra in qualche baita appartata. Quando poi gli entusiasmi per il regime già si stavano raffreddando, alcuni apeini entrarono in contatto anche con nomi importanti della storia dell’alpinismo, come Riccardo Cassin. Giunto il tempo della resistenza armata al nazifascismo troveremo gli apeini pronti: l’accenno in Sentieri Proletari alla biografia di alcuni esponenti storici dell’APE e al loro ruolo nella Resistenza risuona come voce di riscatto di un intero collettività, ed è potente l’immagine che coniuga la bicicletta – che grande importanza aveva avuto nella storia dell’APE – e la montagna come i due simboli della Resistenza, quella cittadina gappista e quella montanara partigiana.
Dopo i giorni della Liberazione ognuno torna alla propria vita, l’APE rinascerà in un paese profondamente segnato dalla guerra e molto diverso dai tempi dell’APE storica. Questo mutamento non farà che accelerare nei decenni successivi, portando con sé nuovi stili di vita. Il sodalizio apeino inseguirà questi mutamenti convulsi cercando di rinnovarsi. Di Monte racconta le vicende di questi decenni a noi più prossimi, dall’impresa di realizzare il Rifugio Alveare Alpino (1953) fino alle difficoltà di tenere il passo dei nuovi bisogni che emergono nella società italiana. Ma gli apeini hanno la testa dura, quando sembra che l’associazione stia per scomparire – come una fenice – rinasce: una terza volta negli anni Ottanta, una quarta nel 2012, rinnovata generazionalmente e come composizione sociale all’interno di uno spazio sociale autogestito dove, dopo un incontro incidentale con questa storia, si costituisce un nuovo alveare meneghino: «perché, in fondo, l’eclissi passa appena un attimo dopo il momento in cui tutto appare assolutamente buio» (p. 90).
Alberto Di Monte – con le sue compagne e i suoi compagni dell’APE Milano – hanno portato nuova linfa a questo sodalizio centenario, gli hanno ridato voce: non alla riscoperta di presunte radici, ma alla ricerca di una storia partigiana – in senso etimologico – su cui innestare una pratica e un sentire che si nutrono nelle contraddizioni del presente. Niente di più molotov.
[1] Jack London, Martin Eden, Einaudi, Torino, 2009, p. 129.