di Filo Sottile
Forse ciò che mi fa amare enormemente la vita
è il contrasto delle sensazioni
Gian Piero Motti
1. In bilico, Inquieto
L’inno inufficiale di #AlpinismoMolotov | #Negazione, «Sempre in bilico» https://t.co/qwZkL3bv5i Su proposta di @fil0s0ttile. Accettata.
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) 2 Agosto 2014
Sempre in bilico dei Negazione è l’inno inufficiale di questa banda disparata che prova a praticare l’alpinismo molotov.
Sempre in bilico
sei sempre in bilico
tra l’odio e l’amore
tra gioia e la tristezza
tra un senso di potenza
e il vuoto del fallimento.
E poi ancora, nelle strofe successive: paure e sogni, sensazioni eccitanti e frustranti pudori e via così. Contrasti emozionali che si possono leggere anche nei récit d’ascension degli alpinisti laureati, e che fanno pensare che tenersi in equilibrio in cresta sia solo il corrispettivo fisico di un funambolismo interiore quasi più rischioso.
Fino a qualche tempo fa non avrei immaginato che una canzone intrisa di rabbia e asfalto e periferia, un’espressione tipica del punk torinese, potesse raccontare di imprese montane in senso lato, e in particolare di questo Alpinismo Molotov che muove i primi passi, tentennanti e avventurosi.
Tuttavia, fra le coppie di opposti fra i quali i Negazione tracciano la loro via ne manca una che a me sembra propria di questo progetto nascente. La coppia di opposti in questione è presente, sebbene non ostentata, in un’altra canzone. Una canzone che invece un’ascesa e una vetta sembra suggerirle in maniera più evidente.
Sto parlando di Inquieto[1] dei CSI.
Oscar Wilde scrive che la musica è la reminiscenza di vicende che non abbiamo vissuto. Inquieto per anni è stata questo per me: l’insorgere tumultuoso di un ricordo non mio. L’ho ascoltata ossessivamente per anni senza sapere di che diavolo parlasse, fino a quando non ho scoperto di provare piacere a camminare su sentieri accidentati e scoscesi. Da allora si è fatta strada un’ipotesi di lettura che con la consuzione delle suole è maturata.
Non pretendo, né mi interessa affermare, di aver svelato le intenzioni dei CSI. Desidero invece mettere in luce ciò che questa canzone sa dire del camminare, e del camminare in montagna e dell’alpinismo molotov.
2. Il suono di un’ascesa
Cominciamo dalla tessitura degli strumenti.
L’attacco è del piano, da solo. Magnelli snocciola note su un’alternanza di scale. Siamo sospesi, è l’alba, assistiamo a uno spettacolo primordiale, come quando ci alziamo presto e, appena fuori da un rifugio o ancora a pochi metri dalla macchina, fissiamo il paesaggio col fiato mozzo. Ci sorprendiamo imbarazzati nello sgranchirci le gambe. No, non è per sport che andiamo a camminare in montagna.
Poi il pianoforte scandisce quella che sarà la struttura ritmica di sostegno per gran parte del pezzo. Un arpeggio: il basso segnato, in evidenza. È il passo iniziale.
Nel giro di due chorus entra la chitarra acustica di Maroccolo. Lavora in controtempo rispetto a Magnelli: si produce una poliritmia: altri passi, non siamo soli sul sentiero.
Poi Ferretti prende a scandire parole: non è canto, non è salmodia, non è declamazione: è il parlato segnato dalle inspirazioni di chi parla e cammina e fa fatica, eppure ha da dire e alla fine lo dice d’un fiato.
A questo punto c’è il primo ritornello, ma dei ritornelli ne parliamo più avanti.
Nella seconda strofa, è Ginevra Di Marco a guidare. La sua voce aggiunge inquietudine al tessuto di piano e chitarra, si muove su una melodia puntata, nervosa, attraversa ogni frase spedita e solenne: una camminata sui tizzoni ardenti. C’è qualcosa che urge in petto – la vetta? – ma non ci sono scorciatoie, si continua a camminare.
Ancora il ritornello e poi Ferretti intreccia il suo parlare concitato alla trama vocale di Di Marco. Terzo e ultimo ritornello, si ritorna alla strofa. La chitarra di Canali comincia a sporcare e a graffiare la tessitura di piano, chitarra acustica e voce.
Al termine del giro c’è un cambio di passo, Maroccolo comincia a pennare gli accordi, la chitarra di Canali pare vento che straripa dalle rocce, è il gioco maligno del gatto e il topo.
Maroccolo fa sentire forte il 6/8: è il tempo del passo regolare, del passo che non si fa intimorire, né stancare. Il passo che permette di far forza sulla gamba destra e sulla sinistra, alternando (dest, due, tre sinist, due, tre, e così via).
Ferretti dispiega il canto, una salmodia, la sentiamo attraverso le folate della chitarra elettrica. Ma non basta, sta per entrarne un’altra, più lontana, riverberata, un uggiolio continuo, senza soste. È la chitarra di Zamboni: siate generosi con il volume, sta lì in basso a destra.
La voce di Magnelli si associa a quella di Ferretti, le dà man forte. Si ribadiscono versi e parole, cresce il pathos: e proprio là, sul culmine, Ginevra Di Marco libera un assolo[2]: pieno, ma non esattamente gioioso, dolorante, ma non arreso: si sta in bilico: è la cima. Una manciata di secondi per gustarla in quella maniera lì, sferzati dal vento, e poi giù nella scarpata della canzone successiva.
3. Inquieto si mette in cammino: in bilico fra Motti e Ismaele
Così Motti a pagina 21 della sua Storia dell’alpinismo:
[L’alpinista] lascia la pianura dove sovente non si sente inserito nella vita di tutti e di tutti i giorni. Lo attrae l’immagine di una vetta che sembra portarlo molto in alto, una meta che alla luce infuocata del tramonto, quando risplende incendiata dal sole della sera, sembra garantirgli (…) quella libertà sconfinata, quella pace e quella beatitudine che vanamente va cercando in pianura.[3]
È o no il ritratto di un inquieto?
Di un uomo che vive uno stato di eccitazione mentale e fisica che lo priva della quiete, lo rende insoddisfatto, irrequieto, desideroso di evadere, di cercare vie di uscita alle consuetudini borghesi. L’alpinista descritto da Motti è un individuo che ha perso l’equilibrio. È in pianura e, con il naso per aria, punta a un altrove, tutto sbilanciato in avanti, attratto da un’illusione: la vetta. È per mantenersi in piedi che deve muoversi, mettersi in cammino. Arrancare sui sassi per ritrovare un equilibrio.
Nel celebre articolo I falliti, Motti rincara la dose:
Vi era chi alla montagna era giunto attraverso l’amore per la natura e proprio per questo pensava all’alpinismo come a un’avventura più intensa e completa, venuta a poco a poco in una logica successione di sensazioni e di entusiasmi. Vi era chi vedeva nell’alpinismo un’affermazione reale e concreta della propria personalità, affermazione cercata forse proprio in seguito a una frustrazione o a un fallimento nella vita di ogni giorno.
Sovente ho sentito dire frasi come queste: «Per me la montagna è tutto», «Ho dato tutto me stesso all’alpinismo», «Se non dovessi più arrampicare sarei un fallito».[4]
Fin dalla prima lettura, queste parole sono entrate in bizzarra risonanza con quelle con cui esordisce l’Ismaele di Melville. Leggete il brano che segue, è l’incipit di Moby Dick, e provate a sostituire mare con montagna.
Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa sapere con precisione quanti – avendo in tasca poco o punto denaro e, a terra, nulla che mi interessasse in modo particolare pensai di andarmene per mare a vedere la parte della terra ricoperta dalle acque. È uno dei miei sistemi per scacciare la tristezza e regolare la circolazione del sangue. Ogniqualvolta mi accorgo che la ruga attorno alla mia bocca si fa più profonda; ogniqualvolta c’è un umido tedioso novembre dentro la mia anima; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, davanti a depositi di bare o in cammino dietro a tutti i funerali che incontro; e, specialmente, ogniqualvolta l’insofferenza mi possiede a tal punto che devo far appello a un saldo principio morale per trattenermi dal discendere in strada e buttar giù metodicamente il cappello di testa ai passanti, giudico allora che sia venuto il momento di prendere il mare il più presto possibile. Questo è il mio modo di sostituire pistola e pallottola.[5]
Risuona, vero?
Anche Ismaele è un uomo inquieto, un uomo che ha perso l’equilibrio, un uomo che per consentirsi ancora di vivere si muove, fugge, alla ricerca di un altrove.
Da cosa fuggono Ismaele e il suo fratello alpinista?
Fuggono dal fallimento di una vita dimidiata, privata della dimensione spirituale[6]. Fuggono una vita scissa, in cui corpo, cuore, mente vengono compartimentati e costretti nella catena di montaggio della quotidianità, dove ogni organo lavora in linea, chiuso nella sua solitudine e senza sapere esattamente a cosa. Fuggono infine il tempo segmentato: quello parcellizzato della piatta terraferma produttiva e quello reso insulso dalla scansione imposta dei doveri e dei piaceri.
La montagna e il mare sono luoghi in cui il tempo ritrova unità, e l’uomo ritrova collocazione nell’universo, a contatto con la logica crudele e incantevole della natura. Qui può avvertirsi come una creatura unitaria, palpitante, viva, fragile e libera. Una parte del tutto.
La wilderness della montagna e del mare, la loro stessa inospitalità, sembrano essere la cura alla morte quotidiana della vita di pianura. Ma attenzione – sempre in bilico! – la figura di Achab e le riflessione di Motti sui falliti ci indicano che la cura può essere peggio del male, può divenire dipendenza, ossessione.
Torniamo alla canzone. Il testo parte proprio da lì, dalla risoluzione del nostro protagonista. Lo chiameremo Inquieto,
Inquieto decide di inerpicarsi. Ferretti non ci dice da cosa fugga, ma nella sua visione è un evento naturale a richiamare il desiderio di unità.
Senza volontà senza sapere quando
Sarà una luna nuova
Una forte nevicata, un temporale
L’arresto che consegue il terremoto
Anche Ismaele ci ha detto che risalire al quando non è poi così importante, forse perché, viene da pensare, “quasi tutti gli uomini, anche se non lo sanno, una volta o l’altra, ciascuno secondo la propria natura, provano sentimenti simili ai [suoi] nei confronti dell’oceano[7]”.
Appena ricevuto il segnale, ancora prima di muovere il primo passo, le parti scisse di Inquieto sono già parzialmente connesse fra loro.
Allora un lampo unisce gli occhi e il cuore
Con borbottio di tuono muovono le parole
Torna il tempo ritorna l’energia
Torna la vita torna il mattino vuoto
Vuoto
Vuoto
Vuoto
L’alpinista di Motti “sa che la via di salita forse sarà dura e difficile, che dovrà soffrire, ma per ora rigetta queste immagini di dolore e invece pensa a ciò che la salita e la vetta sapranno offrirgli durante la lotta[8]”. Al pari di Inquieto, non è ancora partito è già gusta, riassapora, l’energia e la libertà di un tempo intero, di un mattino vuoto.
4. Ecco il ritornello: fra Wilderness e Storia
Immaginiamo che, come spesso capita, il sentiero scelto da Inquieto parta da una piccola borgata abbandonata. Un gruppo di baite decrepite, forse qualcuna è stata adibita a casa vacanze, ma per il resto tutto pare in rovina.
Il presente è abbastanza desolato, ma il passato imprevedibilmente è ancora lì, vivo, benché monco. Qua ciò che resta di una panca, là un vecchio utensile rugginoso, qui una fonte. A Inquieto basta uno di questi spunti: ecco che rivede il borgo vivo, come in un film.
E donne strette dentro scialli neri
Vennero a reclamare scelte chiare
Stavano i vecchi accovacciati ai muri
Attenti i bimbi attenti i cani
Attenti!
Non è una scena qualsiasi. È il fendersi del tempo apparentemente immobile delle piccole comunità montane. È l’irrompere della Storia. Le donne ne sono protagoniste, bimbi e cani sono in attenzione. Anche la posizione accovacciata dei vecchi può essere letta nello stesso modo, un’attesa fervida, concentrata. Cosa è avvenuto in questo pugno di baite? Quale decisione epocale è stata presa? Dove sono gli uomini?
Inquieto è preso fra due ricerche, la wilderness, la vetta, il selvaggio, lo sferzare del vento e il senso di libertà che ne può conseguire, da una parte; e la Storia, le storie, e le memorie del territorio dall’altro.
Sono diverse le canzoni dei CSI che si muovono su questo crinale, il ritornello di Vicini[9] ne è forse l’esempio più significativo.
Vicini per chilometri
Vicini per stagioni
Sulle tracce dei lupi che fuggono le guerre degli umani
Vicini per chilometri
Vicini per stagioni
Traversando frontiere che preparano le guerre di domani
Vicini per chilometri
Vicini per stagioni
C’è modo e luogo di scoprire che il confine è d’aria e luce
Il nostro Inquieto intanto procede. Più avanti, nella strofa successiva, la stratificazione storica della frequentazione montana si fa esplicita: “memorie e passi d’altri ch’io calpesto/su stanchezze di secoli/in alterna cadenza”. Possiamo immaginare queste parole come un frammento del suo monologo interiore. Parole a cui immediatamente vengono affiancate liriche descrizioni dell’ambiente: “terre battute dai venti infoiati dai monti/sereno incanto splendente di sole e di bianco”, eccetera.
Ma giunto in cima, dopo il “colpo d’occhio rotondo” e dopo l’esultanza primordiale dell’assolo di Ginevra di Marco, Inquieto assiste a un’esecuzione capitale.
Inquieto (la canzone) e Memorie di una testa tagliata formano quello che in gergo si chiama un medley, la saldatura fra due o più canzoni. Non è un caso che proprio questi due brani siano qui uniti. Inquieto, nel pieno dell’affermazione di sé in quanto individuo libero e connesso all’universo, getta il suo sguardo su dolorose vicende umane. Da una parte la pienezza e la forza, dall’altra la privazione e la violenza. Da una parte l’io, l’individuo, dall’altra gli altri, la collettività.
E di nuovo non è un caso che le ultime parole prima dell’assolo conclusivo siano: “gioia che riannoda/dolore che inchioda”.
5. Nessun mazzolin di fiori. Fra gioia e dolore
Io non ho dubbi, la “gioia che riannoda” dell’ultimo verso allude al ritrovare su più piani l’unità. Unità psicofisica, la ricomposizione del tempo e l’armonia con l’esistente di cui l’umano è solo un minuscolo aspetto.
Il dolore che inchioda invece mi ha lasciato a riflettere molto più a lungo.
No, non si tratta del dolore alle gambe, quello che ti fa dire: “le ho inchiodate”. O almeno, non solo. È un’altra cosa: quel dolore è altrettanto fecondo della gioia che si prova contestualmente.
È la manifestazione fisica di una consapevolezza: ingiustizia, violenza, sopraffazione sono fra noi. Il dolore ci inchioda, non possiamo voltarci, né distogliere lo sguardo. Non possiamo sottrarci alle contraddizioni, né ignorare la Storia, le storie. È nostra responsabilità occuparci degli esseri umani: vivi, morti e nascituri.
La gioia che riannoda e il dolore che inchioda sono doni. Ogni eroe fiabesco torna dalla sua avventura con una cicatrice e qualcosa di utile alla comunità. Inquieto torna con lo slancio utopico della cima, un altro mondo e un altro tempo possibili, e con racconti di guerra, resistenze, speranze e sopraffazioni. Esattamente ciò a cui tende l’alpinista molotov.
Questo esercizio di lettura è una camminata in cresta, sempre in bilico, appunto. In chiusura uso ancora i due bastoncini a cui mi sono poggiato fino a qui: l’Ismaele di Melville e gli scritti di Gian Piero Motti.
Ismaele è l’esiliato, il reietto, ma è anche il narratore, il testimone: è lui, unico sopravvissuto, a raccontarci la vicenda di Acab e della balena bianca.
Il racconto, la testimonianza sono la missione anche di questo disadattato che è l’alpinista molotov. A lui il compito di raccontare quanto c’è di “[utopico] in questo muoversi «verso su» alla ricerca di uno sguardo sul molteplice e di un tempo più ampio e fluido, meno scandito e frenetico di quello che viviamo in città”[10]. E quello, altrettanto arduo, di scovare storie, districarne i fili, riportarle a valle.
Ancora una cosa: scrivendo queste note mi sono più volte chiesto cosa sia una canzone di montagna o di viandanza (e non dubito che Alpinismo Molotov tornerà sull’argomento). Indirettamente e provocatoriamente una risposta me l’ha data Motti con le sue indicazioni discografiche per la lettura di Zero The Hero, un suo articolo di gusto surrealista. Che ci siano di viatico.
Nella lettura dello scritto un accompagnamento musicale (cuffia di rigore!) è di aiuto straordinario alla comprensione. Per ovvi motivi storici la musica classica non è adatta. L’autore consiglia pezzi dei Gong, Popol Vuh, Tangerine Dream, Klaus Schutz, King Crimson, Pink Floyd (eccellente The Wall!), Alan Parson (ottimo Tales of Mistery and Imagination), Genesis, Steve Hillage, ecc. Per chi è preparato, ottimo Ravi Shankar. Consigliabile la Clear Light simphony (assai difficile da trovare, ovviamente!). Attenzione! Una intromissione di “discomusic” può seriamente compromettere la comprensione dello scritto e può generare un rifiuto molto duraturo nel tempo. I cori alpini e Claudio Villa generano un rifiuto eterno![11]
Cap Taillat – Rivabassa, Agosto 2014
[1] Esistono solo due registrazioni ufficiali di Inquieto: la prima in un cd live, In Quiete, che documenta un unplugged (ma le chitarre elettriche scorrazzano a briglia sciolta) andato in onda su VideoMusic nel 1994. La seconda, sempre live, è contenuta nel singolo del 2001 Noi non ci saremo. In entrambi casi il finale di Inquieto sfocia nell’intro di Memorie di una testa tagliata.
[2] Nella versione del singolo Noi non ci saremo qui entra anche la batteria, che però non aggiunge nulla di sostanziale. Mi sono rifatto all’esecuzione del 1994 che, nonostante sacrifichi molto la chitarra di Zamboni, ha un missaggio più brillante e definito.
[3] Gian Piero Motti, Storia dell’alpinismo, Priuli & Verlucca, Scarmagno, 2013, p. 21.
[4] Gian Piero Motti, I Falliti e altri scritti, Vivalda Editore, Torino, 2000, pp. 121-122.
[5] Herman Melville, Moby Dick, Einaudi, Torino, 1986, p. 25.
[6] Su questo aspetto anche i Negazione entrano in risonanza: La tua mente, la tua anima/disegnano traiettorie di vita/oltre la morte/in bilico con la realtà/la realtà dello spirito/lo spirito della tua vita.
[7] H. Melville, Moby Dick, p. 25.
[8] G.P. Motti, Storia dell’alpinismo, p. 21.
[9] È una delle canzoni di Tabula rasa elettrificata, 1997.
[10] Wu Ming 1, Roberto Santachiara, Point Lenana, Einaudi, Torino, 2013, p. 93.
[11] G.P. Motti, I Falliti e altri scritti, p. 301.
vito66
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Quando lessi *Point Lenana* mi venne da pensare, e poi lo scrissi, che il vero protagonista era Comici, non Benuzzi. Avrei in realtà dovuto dire che Comici incarnava meglio di Benuzzi quella emozione che percepivo correre sottotraccia nelle parti alpinistiche dell’opera. A quell’emozione ha dato ora un nome e un’affascinante descrizione questo pezzo di Filo. Complimenti.
Mr Mill
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Anche io, quando lessi Point Lenana, percepii Emilio Comici come l’autentico protagonista del romanzo; ma pensai subito che, in filigrana, nel personaggio Comici si scorgevano chiaramente il pensiero, gli scritti e la personalità di Gian Piero Motti. Ha ragione @Vito66 nello scrivere che, ad ogni modo, si trattava di un’emozione, di una vibrazione, e nel concludere che questo pezzo di Filippo ha il grande pregio di nominare e descrivere questa emozione, quell’inquietudine che – in modi differenti, per ognuno – ci accompagna nel procedere sempre in bilico.
filosottile
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Concordo. Aggiungo che Emilio Comici, per me, è l’autentico personaggio romanzesco di “Point Lenana” e che visto attraverso le parole di Wu Ming 1, a me ricorda lo Stefano Roi del Colombre di Buzzati.