Partenza e arrivo: Rifugio Colla Melosa, m. 1540 s.l.m.
Distanza: km. 16 (percorso ad anello)
Dislivello complessivo: m. 600 ca.
Tempo di percorrenza: h. 6 (3 + 3)
MARTINA: 2 agosto 2015. I presupposti per una splendida giornata ci sono tutti. La nostra avventura verso il Sentiero degli Alpini sembra cominciare sotto una buona stella (e un sole fantastico) quando incontriamo Mariano a Imperia per partire alla volta del Rifugio Colla Melosa, a Pigna, dove incontreremo il resto del gruppo.
Peccato che dal livello del mare ai circa 1500 m. di Colla Melosa, le mie fantastiche previsioni di una splendida (splendida!) giornata verranno disattese, e ovviamente Mirko, il mio compagno, darà la colpa a me: «Hai urlato “Al sole” troppo presto!» Almeno non sudiamo: un’estate torrida e noi con le giacche a vento – se non è culo questo…
Il tempo comunque non guasta il piacere della mia prima uscita Molotov: riuscire finalmente a mettere un volto e dare una voce a quei nomi letti in centinaia di email è fantastico. Sembra un po’ di conoscersi, anche se non ci siamo mai visti prima, le chiacchiere vengono facili e cominciano subito quando ci avviamo verso la Fontana Itala che segna l’attacco del sentiero.
FILO: Miriam, mia figlia, in montagna cammina. Ha una particolare predilezione per i sentieri accidentati, quelli dove creature della sua altezza si devono aiutare con le mani. Ma ha poco più di tre anni e dopo un po’ si stanca: a quel punto tocca fermarsi o caricarsela in spalle. Ci sta: a noi piace riscoprire boschi e sentieri attraverso i suoi occhi, i suoi commenti e il suo passo. Certo c’è da mettere in conto che i tempi di percorrenza raddoppiano. Ma a volte ci prende la voglia di tornare a camminare al nostro passo di adulti.
Quando si è cominciato a parlare di questa puntata sulle marittime io e Sara, la mia compagna, ce lo siamo detti. La bimba questa volta – la prima volta – resta con la nonna e ci andiamo noi.
E nemmeno uno strappo inguinale rimediato giusto il giorno prima della gita riesce a farci desistere. All’alba mi impomato di arnica e partiamo. Non siamo nemmeno troppo in ritardo.
MARIANO: Lasciando alle spalle gli affollati lidi liguri, e percorrendo con Martina e Mirko i tornanti che risalgono la val Nervia, mi torna in mente un castello vittoriano di Hollywood. Aprile 2012. Con Ferdinando Buscema stiamo lavorando al libro L’arte di stupire e il “Magic Castle” è il tempio che accoglie ogni sera i “big” dell’arte magica statunitense. Uno di loro ci confida che non a caso i benestanti scelgono Los Angeles come dimora: si affaccia sull’Oceano ed è sovrastata dalle montagne; «In quale altro posto al mondo puoi sciare al mattino e fare surf al pomeriggio?» domanda con un pizzico di snobismo. All’epoca non ho la risposta pronta. Oggi l’avrei. Poco più di venti chilometri separano il baretto sulla spiaggia e il rifugio da cui partiamo, dal cui comignolo sbuffano vapori di polenta e cinghiale.
Il rifugio Allavena sorge in località Colla Melosa, una frazione del comune di Pigna (IM). Per capire se siamo in Italia o in Francia dobbiamo guardare il calendario: a parte una breve parentesi, da duecento anni è territorio italiano, ma prima del 1815 la regione era sotto la Repubblica Francese. La parentesi, però, è tra le storie più eccitanti in cui ci si possa imbattere da queste parti: dal 29 agosto all’8 ottobre 1944 Pigna fu la sede di una Libera Repubblica partigiana. Come spiega lo storico Andrea Gandolfo, per poco più di un mese la cittadina fu
retta da alcuni liberi amministratori con cariche pubbliche assegnate ai più degni rappresentanti del popolo [attraverso] l’assunzione di deliberazioni democratiche e l’amministrazione di un’equa giustizia sociale. Venne costituita anche una Giunta comunale formata da civili e partigiani, che ogni giorno si riuniva per assumere le decisioni relative ai problemi più urgenti del momento quali l’ordine pubblico, il controspionaggio e la requisizione di viveri o altro materiale illecitamente prelevato dai magazzini del disciolto esercito italiano per essere poi distribuito alle famiglie più indigenti del paese.
L’esperienza si concluse quando le forze partigiane, condotte dal generale Vittò – nome di battaglia di Guglielmo Giuseppe Vittorio (1916-2002) – furono travolte dalle truppe tedesche che ne ripresero il controllo. Quella che segue è la mappa delle divisioni partigiane (rosse) e tedesche (nere) tra il 1943 e il 1945 in Liguria; il pallino verde contrassegna il Sentiero degli Alpini.
FILO: Non so quasi niente di questo Sentiero degli alpini. Ho visto solo queste foto che mi hanno riempito di orrore e fascinazione. I precipizi mi spaventano e mi attraggono allo stesso tempo. Avvicinarli mette a dura prova i miei nervi, ma è un invito ad affrontare le difficoltà. Nel corso della mattinata percorrerò i sentieri tagliati sui burroni con estrema circospezione e muoverò ogni passo come stessi giocando a scacchi.
Scendo piano dalla macchina, per non risvegliare il dolore alla gamba. Sono felice di rivedere i nordoccidentali coi quali ho già camminato e di conoscere Martina e il suo compagno. Sono sempre di più le voci con cui dialogo quotidianamente sulla mailing list che assumono facce, contorni, corpi, accenti.
E poi c’è ancora una cosa. Questa è la spedizione molotov con la più alta rappresentanza femminile: Paola, Martina, Sara e @stilllived e sono curioso di sentire che modulazioni acquisirà il passo oratorio a cui tanto teniamo.
E poi l’ultima. Sono mesi che cammino con un libricino per identificare alberi sempre al seguito. Ho avvistato la maggior parte degli alberi che crescono spontaneamente sulle montagne del torinese, ma qui lo so, l’ho letto, avvisterò nuove specie.
MARTINA: Il Sentiero degli Alpini è stato costruito tra le due guerre mondiali per permettere la comunicazione tra le batterie militari poste sul Massiccio del Toraggio e Pietravecchia e le fortificazioni di Cima Marta, evitando di esporsi al versante francese. Ancora adesso, guardando le cartine poste sul percorso, sembra che la Francia sparisca in una chiazza bianca. Ci vuole un mago come Mariano, per notare l’assurdità della cartografia.
MARIANO: Il tragitto che abbiamo in programma insiste sul confine tra Italia e Francia; lo attraverseremo in più occasioni nel corso della giornata. La mappa che apre il percorso è surreale: rilievi e conformazioni del terreno sono documentati con un dettaglio impressionante – ma solo quelli italiani; oltre la riga tratteggiata che contrassegna il territorio francese c’è il vuoto assoluto: l’Hic Sunt Leones è sottolineato da una misteriosa distesa bianca, che fa presagire un mare di latte. Forse un baratro di nebbia impenetrabile? È la convenzione usata dai creatori dei videogiochi per rappresentare le terre inesplorate: i giochi elettronici di strategia presentano all’inizio un minuscolo appezzamento in mezzo al nulla; le minuscole tribù protagonista possono muoversi in qualunque direzione, e la scoperta di nuovi territori si manifesta con la loro “accensione”: il quadratino iniziale si allarga a quelli contigui man mano che la regione viene esplorata, rivelando colline, sbocchi sul mare o catene montuose. Osservo la mappa con un certo scetticismo: non riesco a credere che nessun giocatore si sia ancora spinto oltre quella riga tratteggiata. Quella bianca area oltralpe dice qualcosa dei rapporti tra chi viveva ai due lati della linea. Tensioni antichissime, se si pensa che tra il XIII e il XIV secolo l’area fu teatro di cruenti scontri tra la fazione guelfa e quella ghibellina – che riflettevano il più ampio conflitto tra la Contea di Provenza e la Repubblica di Genova.
Il culmine dell’ironia si tocca quando mettiamo piede in Francia. Ci guardiamo alle spalle ma l’Italia è sparita: una parete di nebbia l’ha resa una monotona distesa bianca. Se dovessero incaricarci di disegnarne la mappa, saremmo costretti a usare le stesse convenzioni – ma a segno invertito; la Francia rivela ai nostri occhi ogni dettaglio di sé, mentre l’Italia è praticamente sparita.
Il sentiero gioca a zig-zag con il confine, e dove ci fermiamo a mangiare (al passo di Fonte Dragurina, 1810 m.) si può appoggiare lo zaino in Italia e i bastoncini in Francia – all’interno dello stesso metro quadrato. Di più: a confermarci la sua discutibile natura, il confine è contrassegnato da un cippo mobile; sui due lati, le lettere “I” e “F” osservano ciascuna i Paesi di cui sono le iniziali, ma un escursionista burlone potrebbe farlo ruotare su se stesso e invertirne gli sguardi (o addirittura modificarne la posizione!) Divelto dal terreno chissà quando, ha perso ogni fermezza – e con essa qualunque forza normativa.
MARTINA: Il sentiero ha la forma di un “otto” e mi chiedo quante volte, da quanti piedi, sia stato percorso fin dalla sua costruzione per mano di chi, ai tempi, aveva la guerra in mente. Penso a quante altre persone percorreranno questo tragitto in futuro: quanto fa 8 elevato alla n? Il sentiero però non sembra incline a tendere all’infinito: niente è immutabile e la montagna ha una tendenza a ribellarsi alle forme imposte e a riprendersi i suoi spazi. Il sentiero degli alpini, in mancanza di interventi di manutenzione, sta in parte franando (e il comune di Pigna ce lo ricorda con simpatici cartelli che vorrebbero vietarci la circolazione in montagna).
Forse è un bene che non vengano fatti interventi su queste montagne, viste alcune oscenità fatte nel tentativo di “ripristinare” altre opere montane, però dispiace pensare che nel giro qualche anno un pezzetto di storia delle Alpi Marittime potrebbe sparire, e così la possibilità di godere dei suoi scenari magici.
In montagna mi trovo spesso a pensare alla magia, quella dei libri fantasy, forse perché ho amato le prime volte andare per monti con i racconti di mio padre su re Trotone che custodiva un anello magico in fondo ad un lago alpino e la Fata Morgana che abitava dietro la cascata. I miei sentieri di bambina erano quelli degli gnomi dei funghi, delle fate delle fragole e delle foreste incantate e ancora adesso la montagna mi incanta, è il mio luogo magico, anche quando mi trovo su sentieri come questo, che hanno un’origine tutt’altro che meravigliosa. Ma anche tenendo a mente che questo è nato come percorso di guerra, non si può restare indifferenti al suo tragitto aereo e spettacolare. Per lo meno finché vediamo qualcosa, perché ben presto una fitta nebbia ci avvolge. Ah, le nebbie di Avalon…
Giornate così rinfrancano l’anima e aiutano a spostare i confini della propria visione delle cose. E anche quelli reali, sempre che si possano dire tali: sulle carte confini e frontiere sembrano invalicabili e immutabili, ma per noi quassù possono avere senso? Sulla terra non ci sono linee disegnate con il righello, le creiamo noi e poi decidiamo a chi e come imporle. E ogni tanto decidiamo anche di disfarle.
FILO: Dopo poche centinaia di metri mi faccio superare. Voglio far riscaldare la gamba gigia con calma, senza forzare. E comincio a guardarmi in giro. È un paesaggio tutto diverso dalle montagne che conosco. Un’altra roccia, un’altra flora. Lungo tutta la prima parte del sentiero c’è un’ombrellifera gigante che non conosco. Cacchio, mi dico, potevo portarmi dietro il libro delle piante spontanee!
Poi mi fermo. Ci sono due alberi mai visti. Foglia cuoiosa, lanceolata e delle bacche scure. Tiro fuori il libricino. Lo sfoglio avanti e indietro. Fra le pagine non c’è nulla che gli somigli. Alzo lo sguardo, nessuno si è accorto che sono rimasto indietro. Sfoglio il libricino sempre più freneticamente, ma come ho già notato, è un po’ carente sulle specie spontanee dell’Europa meridionale che non abbiano avuto successo come piante ornamentali o mangerecce nel Nord Europa. Cacchio, dico, se mi fossi portato lo Spohn o il Ticli.
Mi piglia l’ansia di rimanere troppo indietro, allora comincio a incamminarmi al mio passo lento, ma senza staccare dita e occhi dalla mia guida arborea. Poi inciampo e mi rassegno. Ci saranno altre occasioni, mi dico, alla prossima sosta lo identifico.
E purtroppo no, non sarà così.
MARIANO: L’escursione si svolge seguendo la forma di un “otto”; la cifra emerge accostando i due percorsi chiusi che abbracciano rispettivamente il Monte Pietravecchia (2038 m.) e il Monte Toraggio (1973 m.). Ma invece di immaginare l’otto come l’incontro di due cerchi (il settentrionale e il meridionale) possiamo pensarlo come l’accostamento – l’uno da est, l’altro da ovest – di un “tre” con il suo speculare: un’immagine particolarmente pertinente, quando ci si accorge che il numero rappresenta con precisione le ore impiegate per percorrere i due tratti del tragitto.
Mi torna alla mente uno degli incontri più insoliti e fertili nella storia dell’ufologia scientifica. È il 1954 quando Jean Cocteau (1889-1963) e Aimè Michel (1919-1992) si confrontano su un’ipotesi bizzarra: i dischi volanti comunicano con noi terrestri tracciando disegni nei nostri cieli? Rivolgendosi all’amico scrittore, Cocteau gli suggerisce:
Dovresti verificare se gli oggetti si muovono lungo certe linee, se stanno tracciando dei disegni, o qualcosa del genere. Dovresti cercare di scoprire, ad esempio, se i loro movimenti coincidono con le linee di forza magnetiche, o con qualsiasi altra struttura in modo significativo. (Aimé Michel, Flying Saucers and the Straight-Line Mystery, Criterion Books, New York 1958, p. 51.)
Quel giorno nasce l’ortotenia, l’idea che si possa verificare statisticamente l’esistenza di traiettorie privilegiate lungo i percorsi individuati dagli avvistamenti UFO. Ma la ricerca di giganteschi disegni sulle mappe geografiche è addirittura precedente: era il 1922 quando Alfred Watkins (1855-1935) ipotizzò che gli antichi insediamenti preistorici si disponessero lungo specifiche “linee di forza” – le cosiddette ley lines – a comporre disegni non casuali.
Ci confrontiamo sulla plausibilità delle diverse teorie, ma non riusciamo a restare seri di fronte all’ipotesi che una divinità abbia impresso nella conformazione del terreno (in dimensioni colossali!) il tempo che avremmo impiegato per percorrere il tragitto: è una lettura della mappa in cui ravvisiamo un’imbarazzante (per quanto affascinante) Molotocentricità.
I versanti francesi dei monti Toraggio e Pietravecchia presentano una comoda mulattiera ben visibile dal basso – e dunque facile da controllare militarmente: per un contingente di Alpini sarebbe impossibile percorrerla senza dare nell’occhio. Il versante italiano del Pietravecchia, invece, era inaccessibile per la sua stessa conformazione, trattandosi di una parete verticale praticamente impossibile da superare. All’epoca delle due guerre mondiali, superare l’ostacolo era strategicamente fondamentale perché il monte si trovava lungo la via che collegava il passo Muratone (a est) e le spettacolari fortificazioni di cima Marta (a ovest): la necessità di trasferire uomini, armamenti e vettovaglie costrinse gli ingegneri dell’epoca a concepire l’impossibile. Tra il 1936 e il 1938 fu scavato nella roccia uno stretto percorso a strapiombo che prese il nome di “sentiero degli Alpini”. Percorrendolo all’ombra della montagna ci si rendeva invisibili agli occhi dei soldati francesi. In parte sostenuto da alti muri a secco, in parte ricavato direttamente dalla roccia, il sentiero è stato restaurato nel 1990 e una seconda volta nel 2008.
A parte alcuni tratti franati, oggi è ancora in discrete condizioni. I passaggi più esposti offrono all’escursionista alcuni appigli metallici, mentre poco rassicuranti lapidi usano il termine “caduti” per riferirsi – con precisione doppia – a chi è morto lungo il tragitto. Il pensiero va nervoso ai paesaggi che fanno da sfondo alla caccia di Beep Beep da parte dell’intrepido Wile Coyote. Spezziamo la tensione rievocando le nove linee guida che l’animatore Chuck Jones fissò per realizzare le puntate del cartone animato, mentre Filo sottolinea che stiamo violando spudoratamente la regola numero 4 (quella che vieta ogni dialogo al di fuori delle parole “Beep beep!”).
FILO: Prima dell’unico pezzo di reale salita riesco a procurarmi una fronda dell’albero che non conosco. La infilo nella cinghia dello zaino e mi preparo per la lunga scalinata, la parte più difficile per me che oggi faccio fatico ad alzare la gamba sinistra. Ma non è destino che io scopra di che alberi si tratti, quando ci fermeremo al cippo di confine per pranzare scoprirò che il rametto non c’è più.
Sul versante francese la vegetazione è tutta diversa e la macchia mediterranea cede il passo al bosco. Ci diciamo che questo degli habitat e dei microclimi creati dalla conformazione fisica del pianeta è l’unico confine che davvero abbia senso.
Più avanti, all’uscita di un tornante, mi fermo di botto. Credo che mi fermerò allo stesso modo il giorno in cui vedrò un lupo, un capodoglio, una pantera dal vivo, coi miei occhi, nel suo ambiente. Nel corso della primavera ho trapiantato una ventina di sorbi in un parco di Torino e adesso, per la prima volta in vita mia, mi trovo davanti a due sorbi spontanei. Sara mi raggiunge. Guarda, le dico, due sorbi.
Ma è difficile comunicare quanto la cosa mi emozioni. Sono talmente grato e stupito che non mi viene in mente nemmeno di fotografarli.
Quando rientriamo sul versante italiano chiacchiero di piante con Martina che ha una mamma appassionata di flora montana. Ci interroghiamo su questa ombrellifera, ma una risposta non ce la diamo: sarà angelica? Sarà panace?
MARTINA: Tra un saliscendi e un altro i discorsi si infittiscono e spaziano dai cerchi nel grano, e improbabili visioni di repliche tra le fasce liguri, all’alberismo molotov; dalla politica al vegetarianesimo, dal serio al faceto che una buona attitudine cazzara a volte è un sano antibiotico. Sarebbe bello prolungare la gita e raggiungere le ampie fortificazioni dei Balconi di Marta, ma il tempo stringe e ci ritroviamo in men che non si dica a salutarci dopo una sana merenda in rifugio. Ci lasciamo indossando le nostre magliette molotov di Montagne contro la guerra e con un’altra bella storia di alpinismo a modo nostro.
Sulla via di casa verso Imperia, facciamo scoprire a Mariano “Socialismo Tascabile” degli Offlaga Disco Pax – e in fondo in fondo ci pare l’ottima conclusione di un’ottima giornata.
MARIANO: Grazie a Martina e Mirko, la mia spedizione Molotov non si conclude quando ho tolto gli scarponi e sono risalito in macchina. Lungo la strada del ritorno, dall’autoradio la voce di Max Collini racconta di quando a Cavriago (RE) pianse una statua di Lenin. Il viaggio è l’occasione per scoprirne la prosa geniale, il mood socialista e la dolorosa rassegnazione.
Rientro a Marina di Andora (SV) in serata, costeggiando in bicicletta i gazebo della Festa del Partito Democratico. “Sempre allegri bisogna stare” recita lo slogan dell’evento, ma quel che cela è più importante di quel che mostra.
Filo me ne svela l’origine: è un verso di Enzo Jannacci, dalla canzone “Ho visto un re!”. Il corrosivo testo originale spiega le ragioni di tale invito: sempre allegri bisogna stare, ché il nostro piangere fa male al re; lo slogan perfetto per l’Italia di sorrisi di plastica nel cuore del nostro Primo Ministro. Colgono meglio lo spirito della giornata i versi modulati dal compagno di scarpinate Ezio Bertok.
EZIO:
Girotondo sul Toraggio
Ecco qua: due nonni, una mamma ed un papà,
gli altri chissà, forse sarà domani, che sempre allegri bisogna stare.
Oggi intanto tutti insieme a fare girotondo
girotondo intorno al mondo
e al centro c’è il Toraggio.
Nelle orecchie una canzone,
Nel cuore Dario Fo, negli occhi c’è Jannacci
Il naso però sente puzza di bruciato: un partito ci ha rubato anche la canzone, non gli bastava il resto.
Dice: faccio una festa, e ordina: “sempre allegri bisogna stare”
Usano una canzone per dire stai sereno.
Sarà, contenti loro.
Meno male che le nuvole a nascondere la cima del Toraggio creano un’atmosfera magica:
oggi si dissolveranno nel nulla, domani sarà la volta del partito che fa festa.
Oggi stai sereno, domani è un altro giorno e si vedrà.
Forse non sarà domani ma un bel giorno cambierà:
anche Tenco è con noi a fare girotondo intorno al mondo.
Vengo anch’io, no tu no.
che sempre allegri bisogna stare: dipende…
Il nostro piangere fa male a re: lo ha detto anche in Giappone!
Fa male al ricco e al cardinale: vero, verissimo.
Diventan tristi se noi piangiam: e allora avanti con le lacrime!
Anche per questo facciamo girotondo, il Toraggio è con noi.
Montagne contro la guerra dichiara guerra all’ignoranza
Se tutte le ragazze…
E se tutti i ragazzi…
E se tutta la gente si desse una mano
Se il mondo finalmente si desse una mano
Allora ci sarebbe un girotondo
Intorno al mondo
Endrigo non lo sa, ma anche lui è con noi intorno al Toraggio.
Due nonni, una mamma ed un papà. E fa quattro
Gli altri cinque hanno tempo per pensarci. E fa nove.
Con noi ci sono Fo, Jannacci, Endrigo e Tenco.
Cazz… fa tredici. Embè?
Chi se ne fotte, anzi no no, facciamo così:
chiamiamo anche Matteo, gli faremo sputare sangue per arrivare in cima.
Vengo anch’io? No, tu no.
Porti sfiga.