Si parla diffusamente, ma mai abbastanza, dell’importanza delle donne curde dello YPG in funzione anti ISIS. Non solo per il loro apporto materiale nella azioni di guerra ma anche per il ruolo simbolico e per la reazione che i soldati del califfato hanno nell’incontrare combattenti donne. Non deve essere stato molto diverso dal senso di sbigottimento e rabbia che i fascisti del Battaglione M IX Settembre (M stava per Mussolini, il 9 settembre perché si costituirono all’indomani dell’armistizio), impegnati nelle azioni antipartigiane nell’Appennino Centrale, provarono nel trovarsi di fronte partigiani “negri” sul suolo italiano. Perché questo avvenne nel corso della Resistenza sulle pendici del Monte San Vicino, nelle Marche.
La catena del Monte San Vicino è parte dell’Appennino Umbro Marchigiano, più specificatamente della Dorsale Marchigiana. Sorge al confine tra le provincie di Macerata ed Ancona e al suo interno le vette non raggiungono mai i 1500 m di quota, lo stesso Monte San Vicino arriva a 1480 m. Ciononostante la sua posizione lo rende visibile e riconoscibile dall’intera regione Marche. Questo ne ha fatto una sorta di stella polare per viaggiatori ed escursionisti di ogni epoca. L’intera area è ora parte della Riserva Naturale Regionale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito e sta incontrando un crescente interesse turistico. Vista la mancanza di dislivelli proibitivi si presta infatti ad attività escursionistica adatta anche ai meno allenati ed al suo interno racchiude notevoli elementi di interesse sia dal punto di vista naturalistico che storico. Gole, cascate, rocche, faggete in un contesto tra i meno antropizzati della regione. All’interno della Riserva si trova tra l’altro l’Abbazia di Roti (X-XI sec.), ora ridotta ad un rudere, da cui prese il nome una delle bande partigiane che operarono nell’area del San Vicino.
Il “Gruppo Roti” ha una caratteristica che lo rende, se non unico, sicuramente molto affascinante. Al suo interno militarono infatti inglesi, russi, australiani, italiani, jugoslavi, somali ed etiopi. Una storia di Resistenza meticcia che al tempo dei muri e dei reticolati e della nuova spinta del patriottismo vittimista italiano rappresenta una formidabile ascia di guerra da disseppellire.
Ma come è possibile che sulle pendici di una montagna del maceratese combatterono e morirono dei partigiani africani?
Il loro, lungo, cammino verso la montagna inizia nel 1940. Quando furono portati a Napoli per la Prima Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare. L’intento dell’esposizione coloniale era quello di mostrare la grandezza dell’impero italiano e della sua millenaria missione civilizzatrice. Per fare questo, tra le merci, vennero portati sul “suolo patrio” circa cinquanta figuranti dalle colonie. Membri della Polizia dell’Africa Italiana (PAI), artigiani, famiglie intere. Con l’entrata in guerra dell’Italia, la Triennale, questa antesignana delle Grandi Opere italiche, si conclude nel fallimento più totale: padiglioni distrutti, un’area immensa della città devastata… Ma non sarà che questa storia ci parla molto del presente?
Ma torniamo alla lunga escursione dei partigiani d’oltremare.
Restano ancora sconosciuti i percorsi seguiti dai 50 sudditi coloniali nel periodo successivo; se rimasero a Napoli o vennero spostati. Quel che è certo è che nel 1943 li ritroviamo nei locali di Villa Spada di Treia, un ex campo per internate straniere situato in provincia di Macerata. Sappiamo che all’indomani dell’8 settembre alcuni di loro scapparono dal campo di internamento. Ancora una volta non è chiaro come raggiunsero le bande partigiane. Sicuramente qualcuno diede loro delle indicazioni in merito: la montagna li avrebbe accolti, lì sarebbero stati al sicuro. Altrettanto sicuramente il profilo riconoscibile del Monte San Vicino avrà reso ai fuggiaschi il compito più semplice. Non si trattava di riconoscere una montagna tra le tante, come sarebbe successo in altre aree montane o collinari della regione. Bastava seguire il profilo di quella sorta di “vulcano spento”, così appare il San Vicino dalle colline che si innalzano sopra il borgo di Treia.
Non è possibile ricostruire il cammino esatto che effettuarono, ma gli edifici di Villa Spada distano dall’abbazia di Roti almeno 35 chilometri. Tutto sommato non deve essere stato troppo pesante per loro, considerando che nell’addestramento delle truppe PAI erano previste marce di chilometri e chilometri con zaino in spalla.
Raggiunte le bande partigiane, gli ex internati raccontarono loro di quanto visto nei locali di Villa Spada convincendoli che sarebbe valsa la pena tentare un’azione. Il 25 ottobre 1943 una trentina di partigiani delle bande del San Vicino attaccarono il campo di Treia recuperando armi, munizioni e liberando altri internati. Alcuni di loro si unirono ai partigiani salendo in montagna. Tra di loro l’etiope Carlo Abbamagal, che trovò la morte in uno scontro a fuoco con una pattuglia di altoatesini della Wermacht il 24 novembre del ’43. La storia di Carlo, ricordato ora in una lapide nel cimitero di San Severino Marche, e quella degli altri africani che parteciparono alla resistenza nel maceratese è tuttora oggetto di uno studio su cui sta lavorando Matteo Petracci, studioso che ha contribuito in questi anni a far luce sulla vicenda.
Le motivazioni che hanno portato “in montagna” i partigiani d’oltremare non devono essere state dissimili da quelle delle altre decine di migliaia di uomini e donne che parteciparono alla Resistenza. Magari alcuni tra gli stessi membri della PAI avevano sentito parlare dei partigiani etiopi che nelle montagne africane si opposero all’esercito italiano del macellaio Graziani.
Nel 2011 proprio due atleti etiopi degli altipiani vinsero in Val di Susa il Memorial Partigiani Stellina, gara di corsa in montagna che da Susa porta sui sentieri del Rocciamelone per ricordare la divisione partigiana Stellina, che combatté i nazifascisti proprio lungo quei sentieri. Seboka Dibaba Tola nella gara maschile e Aynalem Wo Woldemichael in quella femminile hanno unito, probabilmente senza saperlo, la storia di montagne e bande partigiane diverse.
Rimane comune il tipo di paesaggio: quello montano. Terreno principe di tutta la guerra di liberazione, non solo perché strategicamente adatto ad azioni di guerriglia, perché ostico e protettivo allo stesso tempo. Ma anche perché a livello simbolico rappresenta una condizione esistenziale e politica, la montagna come sinonimo di accoglienza e libertà. Gli insediamenti montani scelti davano spesso il nome e l’anima stessa alla banda partigiana, come ad esempio lo stesso “Gruppo Roti”. A sottolineare il legame che si veniva a creare tra il territorio e l’azione che veniva praticata. La montagna, che, nel corso della prima guerra mondiale era stata sinonimo di confine e “quota” da raggiungere, nella guerra di Liberazione diventa quindi luogo di formazione e di incontro. Di unione e di conflitto.
La libertà che partigiani come Carlo Abbamagal e Giorgio Marincola hanno contribuito a portare nel nostro paese ora si vorrebbe ingabbiare, recintare, murare a partire da paesaggi montani come quello del Brennero. I sentieri e le strade di montagna diventano ancora una volta terreno di resistenza, spartiacque tra accoglienza e becero nazionalismo di bottega.
Foto storiche del “Gruppo Roti” Archivio Famiglia Baldini.
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